Giappone #4: Wazuka (piantagioni di tè verde) e Yuasa (dove nasce la salsa di soia)

E così lascio la metropoli alla metropoli, incrociando il Giappone per andare incontro ad una di quelle frenesie vicine al compimento. Destinazione: Wazuka, distretto di Soraku, prefettura di Kyoto. Uno dei luoghi dove è nata la leggenda del tè verde giapponese. Dal tredicesimo secolo e dalla solita importazione dalla Cina. Si arriva, quasi per caso, si parla solo giapponese, il resto sono gesti rituali, imposizioni, movimenti deboli e spiegazioni raffinate. In mezzo ai declivi, sotto una pioggerellina nebbiosa, scena di sparuti tempietti, l’antropologia si sviluppa lungo un fiume che divide le piantagioni del tè tra filari estremi, filari coperti e filari a ridosso della strada. La raccolta è in corso. Il Gyokuro e il Kabusecha aspettano di essere liberati dalla penombra (un paio di settimane), il Matcha di essere polverizzato, il Sencha e il Bancha di essere raccolti sotto il picco di un sole che non c’è mai. Questa è una giungla fuori latitudine con umidità pazzesche e colori rarefatti. Nessuna fermentazione e nessuna ossidazione, il tè rimane verde, vapore, asciugatura, essiccazione e raffinazione. Il Gyokuro sotto i kabusè (coperture) deve raggiungere l’umami, l’identificazione di un popolo, l’ouika (incenso dolce come le alghe marine), mentre il Sencha, quel brodo vegetale da cerimonia del tè fuori tempo massimo.

D.Matcha, straordinario produttore locale, non ragiona più nemmeno sulle classificazioni e sul tipo di lavorazione, ma direttamente sulle cultiuvar – saemidori, okumidori, tsuyu-hikari, yukata midori, yabukita -, ognuno con le proprie caratteristiche e il proprio palato. Un mondo prodigioso di sensazioni che svaniscono, di camminate con i capelli arruffati, di ragnatele giganti e fragori d’acqua senza concessioni. Wazuka è un luogo magico e prelogico, dove conoscenza e gesto diventano il segno di un’epoca che è esperienza e compromissione. Ho pensato che sarebbe potuto finire tutto lì…

… E invece no… è continuato.

Prefettura di Wakayama, una zona fertilissima, a metà tra la Sicilia e la Norvegia, piantagioni di ume – da cui si ricava l’umeboshi, prugna/albicocca salata e fermentata nello shiso per anni dal sapore sapidamente acido -, di hassaku (un tipo di arancia), yuzu, uva e di fragole, insenature pescose, monasteri romiti, spiagge termali ma sopratutto la cittadina dove per la prima volta in Giappone (l’origine è sempre cinese) è stata prodotta, nel XIII secolo o giù di lì, la salsa di soia. Yuasa, dodicimila abitanti, nessun turista, nessun comunicatore in un’altra lingua al di là del giapponese, un porto abbandonato, un porto attorcigliato, lungomare talmente lontano dall’idea di lungomare che sbiadisce per troppo uso e due aziende (in teoria ce ne sarebbero quattro) che producono ancora la salsa di soia nella maniera tradizionale. Yuasasyouyu è la produttrice griffata, tanti tipi, aromatizzazioni, metodi antichi e sapori pieni di umami che virano verso l’equilibrio tra salato e acido. Grano (tostatura), fagioli di soia (bollitura) e sale, aspergillus, brodo e aspergillus, fermentazione koji (3 giorni), fermentazione della salsa di soia grezza (un anno e mezzo), spremitura (4 giorni), bollitura finale dove necessaria. Poi c’è Kadocho, ma qui si entra in ciò che attiene alla meraviglia. Yuasa è un posto remoto dove si dorme nei castelli dei samurai (Yuasa-jo), dove non c’è una particolare affezione al turismo e nemmeno al restare, dove la sera arriva presto per mancanza di alternative e dove pur tuttavia c’è un’unica strada che ha mantenuto intatto il fascino del tempo con le sue 323 case protette per il loro “immenso valore culturale”. Tra queste c’è il museo, il negozio e i magazzini di produzione di Kadocho, nata nel 1841, e produttrice di una salsa di soia cruda diversa, in quell’unica vasca che l’ha sempre prodotta. Un mondo. Un altro mondo ancora, che vira verso l’estremo, il sapido, il dolce e l’acido in una fermentazione fatta ancora totalmente nel legno e attraverso il legno. Qui c’è dell’antico che si tramanda di padre in figlio nella banalità della fatica. Quella che in pochi trattengono e che ritrovi sbalorditiva sul il palato…

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