La Milano degli artigiani

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Milano città sepolta, Milano città dimentica delle sue principali abitudini e dei ritmi lavorativi meno sfrontati, quelli non racchiusi in un dovere di perversione ma soprattutto quelli che non dovevano a tutti i costi strizzare l’occhio all’ultima moda, al design, al cocktail (il mixologist rimane sempre e comunque un barista, nel bene e nel male), al vino, al tempo libero e alla necessità di esserci. A Milano gli artigiani non ci sono mai stati, c’erano, sono stati di passaggio e resistono. Ma l’amore è sfiorito presto, senza lasciti o retaggi che vadano oltre una speranza passata che probabilmente non c’è mai stata. E così ci ritroviamo in mano una città con un oggi sempre più stringente, senza uno ieri e con un domani ibridato. Tutto il resto è paesaggio, perché la nascita è sempre un’annunciazione, un battage pubblicitario che rizza le orecchie, tiene informati i food blogger, scongela umanità ma soprattutto sposta le attenzioni. E un luogo come Milano non può prescindere dalle continue aperture, mentre gira volentieri l’orecchio quando si tratta di tracolli, chiusure o fallimenti. E così la smania di aprire prende tutti, piccoli e grandi, capaci e incapaci, artigiani e commercianti dell’ultima ora, quelli che aprono un ristorante o una pizzeria per ospitare gli amici bocconiani la domenica a pranzo, battersi un cinque alto, chiamarsi bomber e far vedere al padre che i 19 in microeconomia non erano poi così pertinenti.

In mezzo a questa intemperie barbarica, in mezzo ai ristoranti stellati che crescono in numero e scalano i piani dei grattaceli, in mezzo a quella enologia da bottiglie sempre più care e a quegli aperitivi finti algebrici, a quei cocktail sempre all’avanguardia in speakeasy sempre più misteriosi, a quelle pasticcerie vendute senza coscienza prima ad imprenditori edili e poi a griffe di moda, a quelle colazioni urbane e rurali da campane di vetro e torte fatte fuori serie, in mezzo a quelle microdistillerie che hanno il gin nel sangue e un po’ meno nella botanica, in mezzo a quei quadrivi che vedono crescere bistronomie-trattorie-panifici-locali e birre artigianali tutti dallo stesso lato della luna, a quei mercati decuplicatisi nel loro essere gourmet sempre e solo come dichiarazione d’intenti, c’è ancora qualche artigiano che si sveglia alle sei e va a dormire alle due.

C’è Giuseppe Zen che, partendo da Mangiari di Strada, ha deciso di creare una macelleria che fosse Popolare prima nelle ambientazioni che nella clientela. Insieme a Carlo Alberto Menini e Eugenio Barbieri, esimi artigiani di altri racconti, sta cercando di creare una filiera di bovine allevate solamente con erba (grass fed per i benpensanti) e una filiera di lasciti economici che metta al centro ancora il fine e non il mezzo. E così nel suo essere menestrello, Giuseppe ha riportato in Darsena un pensiero idealizzato, da racconto frollato e anime perlustratrici.

C’è Davide Longoni che, dal suo panificio al Mercato del Suffragio, ha contribuito a far lievitare la mitizzazione dei grani antichi e della pasta madre. Accompagnato da un’accolita di corazzieri, ha creato un mercato quadripartito, tra pesce, ortaggi, gelati e pizze, che concorre acriticamente al premio di miglior luogo gastronomico milanese aperto nel fu 2015. La pizza, messa insieme con Fabio Venturini e Renzo Sobrino, è un ritorno ad un popolare raffinato vera anima di una Milano che contava…

C’è l’accoppiata Vincenzo Santoro e Davide Comaschi che duplicano la Martesana in zona cinese (rivedibile), continuano a portare raffinatezza in quella periferia da ringhiere, ferrovieri, nebbie coatte e giornalismo che non c’è più, e trasformano la giornata in colazioni baluginanti e specchi a torta… ci sono gli ultimi lievitisti sopravvissuti al disfacimento della triade “Busnelli, Zoia, Alemagna”, Rampinelli in Mac Mahon, Migliavacca in Argonne, Roffia (Alvin’s) in Melchiorre Gioia.

Ci sono i rampanti tetragoni di Pavè, uno dei pochi locali realmente sostenibili in città, che, con una qualità anche mediatica, sono riusciti a creare file senza ingorghi per prodotti assolutamente condivisibili, c’è la stilizzazione di Ernst Knam e la distopia dei suoi furgoncini che si trasformano in dolci senza soluzione di continuità.

Ci sono glie eroi del Birrificio Lambrate, autentici antesignani della birra artigianale italiana.

Ci sono i principi e i princìpi della gelateria contemporanea: dai cercatori di urbanesimo, Riccardo Schiavi (La Pasqualina) e Stefano Guizzetti (Ciacco), ai contradditori meneghini, Sartori e la famiglia Cardelli (Bottega del gelato), fino alla ragazza prodigio, maturata negli apprezzamenti, Vittoria Bortolazzo (Gelato Giusto).

C’è la storia delle macellerie milanesi capeggiata dall’eminenza grigia, Ercole Villa, che officia il suo culto pagano della Piemontese tra le botteghe di viale Brianza e dell’Annunciata, attraverso i volti e le parole dei suoi sacerdoti Mauro Brun e Bruno Rebuffi. Ci sono i Masseroni, i Faravelli, i Pellegrini, gli Oldani, imprescindibili certezze per una borghesia che conta e continua a contare.

C’è Giorgio D’Ambrosio con la sua cultura del Whisky, che porta l’artigianato scozzese senza blandizie eccessive…

Il resto è tappezzeria, decadimento, ignoranza (mia), presa per i fondelli, deteriore cucina pop, vendita diretta, moda omeopatica, caffè servito con filtri alchemici, formaggiai da unico fornitore e supermercati gourmet con tavolini ribaltabili…

Se qualcuno volesse segnalare… o segnalarmi…

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