Manifesto: gastronomiche strade, gastronomici sbagli e gastronomiche manie

terreno

Sano, buono, stagionale, a filiera corta, pulito, giusto, sostenibile, prodotto, produttori, sprechi. Parole svuotate di senso. Approccio etico (prima via) ad un cibo che della visione organolettica (seconda via) si è vieppiù dimenticata, abbandonandola in quelle derive edonistiche/intellettuali/catatonicamente morte degli assaggiatori industriali e dei fruitori di TV-spazzatura-gourmet. Poi c’è la terza via, quella d’accatto, del cibo vissuto come un passatempo, come qualcosa di assolutamente tangenziale alla giornata, un approccio necessario, di sostentamento.

Ideologia, dogma e qualunquismo.

C’è qualcosa di più? Lì in mezzo, c’è il desiderio, c’è quella tensione alla verità che non risparmia la fatica, c’è quella ricerca dell’errore come completamento e non come bocciatura, c’è l’abbandono delle classifiche, dei profumi imparati, dell’”organolettia” come ultimo feticcio.

Questa tensione, che della fatica di conoscere non ha mai smesso i panni, ha ancora un senso? C’è dell’umanità al di là di etica, estetica ed indifferenza? Qualcosa che della gastronomia non abbia perso la terra, la ricerca delle marcite, delle erbe falciate, del nomadismo estivo, dell’alpeggio come forma di apertura alla verticalità della terra, dello stato brado, della pulizia, delle cantine di stagionatura, delle neviere e dei grani antichi.

Perché anche le multinazionali del cibo ammantano i loro discorsi singolari con slogan “assolutamente slegati” dalla precarietà della terra e dissolutamente legati all’attualità della circostanza: filiera, sostenibilità, kilometro zero, nomi di razze altisonanti per produrre lo sbalordimento.

Il punto è… che effettivamente basta. Non c’è molto di più. Né dietro, né dentro, né fuori.

La Chianina diventa tecnica, impiattamento ed estetica. Si allontana dalle scarpe in fibra di latte, dai dashiki e dai colori improbabilmente sgargianti delle tappezzerie ecologiste, rivendicando Ardore. Così la pudicizia dell’allevatore diventa commercializzazione e leggenda, cortocircuitando l’origine.

Ricapitolando: l’estetica sta cercando di portarsi via l’etica sotto forma di un ri(s)catto sociale. Forma, ricatto, riscatto, estetica, sociale sono l’approdo di una contemporaneità desiderata. E così le bestie sono più facili da sussumere perché mancano di fatto dell’istintualità: ora definita, rifinita, abbellita e quindi assolutamente Visibile.

Si portano in tavola tagli di carne cruda, si fantastica sulle frollature, rendendo la marcescenza, la proteolisi e l’anticamera della putrefazione qualcosa di selvaggiamente conforme. Ai salotti, agli articoli e alle manifestazioni. L’occhio vigile del vegetariano concupito sveste i panni agricoli per rimettersi addosso quelli riciclabili. Se ci fosse un Neil Young, a tagliare a fette la nostra tranquillità, canterebbe uno stralunato “Urban beekeeping”, abbandonando per sempre i suoi sogni di “harvest” e la remota possibilità di un’etica senza condanna. Siamo tutti riciclati e così lo stravagante “sovra-apprezzato” si prende il lusso di fottersene, trasformando l’incultura informatica del pizzetto, della camicia bicolore, delle Hogan e della favella spiccia che da Malaparte arriva a Feltri senza compromissioni, ma con molti convincimenti, in una nuova forma di mecenatismo.

I Keith Haring e i Basquiat di oggi hanno una forchetta in mano e imboccano, rivendicando genialità ed incomprensione. Mantenendo la cultura su quel filo elitario da portafoglio spalancato. Il resto è godimento d’accatto, per sentito dire e per visto accadere. Perché ci stupiamo sempre che un artista sia morto povero? Perché un artista, in una società meritocratica, dovrebbe morire ricco? Perché Van Gogh è morto povero? Perché un quadro di Cezanne dovrebbe costare cento milioni di euro? Perché essere capito deve mutuare l’essere comprato? La genialità non sta forse nell’essere incompreso, nell’essere diverso, nello sbigottire senza giudizio e senza appiglio? Guadagnare è sinonimo di apprezzamento? Perché l’artista dovrebbe essere ap(prezzato)? Un piatto ha bisogno di un valore per la difficoltà con cui è prodotto? Un piatto può essere venduto? Quale qualità, sottratti i costi vivi, può essere valutata? Da chi? Dall’artista stesso? Da chi se ne arroga il diritto? Dall’esperto? L’apprezzamento del cibo è talmente sinestetico da aver perso la radice di tutto… la domanda? Chi è all’origine del piatto? Lo chef, il produttore, il cuoco, il commerciante? È un gioco di sguardi o di riguardi? Stellato, dozzinale ed etico sono antitetici? La carne di Chianina del McDonald’s è diversa da quella di Chianina della trattoria della Val di Chiana? E da quella dello stellato fiorentino? L’etica dell’allevatore è veramente in mano al cuciniere? e il mito della razza è l’ennesima sopravvalutazione della forma?

Ecco, io non ho mezza risposta ma ho mezzo manifesto formulabile.

Il dominio del contenuto.

L’avanguardia gastronomica deve imparare a rispondere alla domanda perché e smettere di trincerarsi nella risposta come. Conoscere la motivazione, il cultore della materia (pezzente per definizione) deve pretendere di sapere perché McDonald’s ha scelto la Piemontese, deve avere la pretesa di comprendere quello che sta mangiando. Non basta un’etichetta pulita, bisogna ricominciare a fare domande scomode, a scandagliare le carte e le cucine e non la mise en place. Il gusto non basta più. L’organolettico e l’etico devono completarsi e non accontentarsi. I segreti delle schiscette piene di ingredienti misteriosi devono saltare in aria. Non basta più sedersi al tavolo e aspettare, bisogna avere le palle di mostrare tutto, pure la gita alla Metro a comprare il pomodoro. Opporsi alla corrività della carta di credito che ci concede il relax. La quarta via è quella dell’affaticato, della persona che ne ha piene le palle delle palle dei pallonari che continuano a ritirare bellamente premi e meriti. Cioè, B.B. oltre a sapere usare il coltello che merito ha? È un tamarro di periferia senza arte né parte… che gusto può avere uno che si veste così?

È il principio talebano del trasformatore. Anche il discount deve essere mostrato senza infingimenti, senza codardie. Fare pulci moralistiche a chicchessia, criticare il pischello tirandogli calci negli stinchi, guardare dall’alto verso il basso il tanto al kilo, citare Walter Benjamin quando si parla di piatti, stare sollevati sul proprio bel paio di scarpe da vela con il tacco, e poi nascondere lo scontrino, puzza di proditorio più di un quadro di Andy Warhol. Così all’organolettico, all’etico e al dozzinale, bisognerebbe provare ad aggiungere la strada verso il vero, verso una mostrazione, che sia gentilezza e sincerità, che sia piedi per terra e fatica, che sia spesa ragionata ed economia domestica. Così, per provare l’euforia che fa non montarsi la testa e non smontare il proprio palato in mille pezzi per sentire cimici esoteriche e pupazzi inanimati… così… perché la verità è sempre un bel punto di vista a cui tendere…

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