Per una gastronomia “engagé” (impegnata)…

Togliamoci un po’ di maschere e un po’ di vestiti, lasciamo da parte sarcasmo e ironia, proviamo a raggomitolarci in un cantuccio riflessivo e a intendere che il tempo della sapienza non ha attecchito, si è chiamato fuori e ha lasciato l’Italia in mano ad un fatuo frivolo volubile gommato e indolente. Fuori i pasdaran del giornale, dentro i progressisti illuminati delle serie tv. Il pesante, quel bel polpettone slavo anni ’70, fuori, dentro le sfumature sofiste. Dentro l’UMIDO, fuori il SECCO. E così i gusti si sono ammorbiditi, dentro la mollezza del ventre, i divani mentali, i travestimenti buffi, fuori i bastoni, le carote e il manicheismo. Il relativismo è l’altro lato della medaglia, sempre e comunque. Guardi gli chef belli tronfi, sorridenti, parlare di food cost, che vale solo per costo d’acquisto e mai per quello di vendita, guardi i critici che ormai sono riusciti a giustificare la combutta come necessità di crescita, guardi la dialettica scadere in diplomazia e sorrisi, e capisci perchè la sinistra non ha più nulla da rivendicare. Moralmente, intellettualmente e gastronomicamente. Ogni produzione è diventata cultura, ogni forma è diventata arte, ogni compromesso è diventato necessario. È tutto bello, straordinario, interessante, nuovo, rivoluzionario. È tutto troppo culturale.

Io non ci sto. Anzi sto fuori. Serro le mandibole e ritorno pesante. Troppa leggerezza negli ultimi anni, troppi accordi e sorrisini.

L’ironia serviva a Celine per contrapporsi all’engagement intellettuale. Ma ora, senza l’azione, la reazione diventa l’azione stessa e, nello stesso tempo, la reazione alle possibili obiezioni. Lento, pesante, prolisso sono tutte qualità diventate quantità. E così mi accorgo che l’impegno, non quello ideologico che sputa ai poliziotti o millanta le case agli Italiani, ma quello che prova ad andare oltre e attraverso, che non confonde la pesantezza di Werner Herzog con quella di Narcos, che crede ancora che la serialità, di piatti o puntate, non sia che un diversivo, che pensa al cibo con sofferenza e a volte rabbia, sia ancora nacessaria. Sì rabbia.

Questo potrebbe trasformarsi in un elogio della rabbia.

M’infastidiscono epidermicamente e visceralmente:

i finti venditori di cibo da strada con il ciuffo messo in piega da Bullfrog, i panini morbidi e suadenti che usano il cereale antico come clava e principio di autorità, il cibo da mangiare in condivisione, le tavole di legno dove conoscere il vicino di sedia che non ti permette nemmeno il ruttino postprandiale, i critici gastronomici che gigioneggiano nel loro essere sempre antitetici all’interlocuzione, gli chef digiuni che pensano che la materia prima si scelga in un catalogo, l’espressione deferente delle folle, l’indignazione che per esistere ha bisogno di un like, le manifestazioni il giorno prima del fine settimana, la gastronomia come “provo a riempirmi la pancia vendendo la faccia”, i food social media manager, gli uffici stampa che promuoverebbero anche il risotto alle cime di tarzanello in cambio di un pasto gratis, la mancanza d’impegno perché tanto in un mondo dove è tutto relativo il sorriso è l’unica arma da sfoderare, l’incapacità emotiva, il sorriso come forma di comunicazione, il sorriso come forma di esistenza, l’indifferenza al successo altrui, il disarmo mentale, la penna come spada e la penna come lecca-lecca, la decadenza verbale, i sottotitoli delle serie tv da vedere “necessariamente” in lingua originale, la traduzione letterale dal parlato allo scritto, la cucina come assemblaggio e le relazioni come rimedio al suicidio… credo che la gastronomia debba tornare ad impegnarsi, a rendersi conto di sé e a eliminare il vizio come base sociale…

In fede

Un gastronomo eversivo da divano

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