Sacro Monte di Varese. Giornata uggiosa. Nebbia che s’incunea e vista che non spazia né fino a Milano né fino a Varese. Quattordici cappelle, una borgata, modeste chiesette che sono diventate sfarzose chiese barocche, quadri e cripte. La storia che si è mischiata alla leggenda, Agostino e Ambrogio che si sono incontrati, famiglie nobiliari che hanno mantenuto la distanza dal capoluogo e una serie di architetti succedutisi nella creazione di un patrimonio prealpino in mano a pellegrini, ma solo nei giorni di sole. Tutt’intorno, finestre posizionate per non dare il fianco agli invasori, alloggi, grate di clausura e una serpentina interminabile di ciottoli che si schiacciano sotto portici senza coordinate. Azzeccare la strada giusta è quantomeno bizzarro. Per caso, arrivo all’unica bottega della frazione.
Giancarlo Di Ronco è la luce in fondo al tunnel, vende qualche genere alimentare di sopravvivenza, si prende il suo tempo, conosce la storia dei luoghi e l’affabilità del mestiere. Con lui c’è Marina Lonati, originaria e originale. Al Sacro Monte da sempre. Ha visto chiudere ed aprire i monasteri, chiudere ed aprire i fornai, conosce tutto. Abita in una casa appena sopra. Si ricorda la farina e gli odori dei dolci. Così ha deciso che non si dovessero disperdere con la vecchiaia. Dalle case li ha portati fuori. Inforna poche volte all’anno e decora ancora meno. Però i dolci del Sacro Monte sono salvi. I mostazzini hanno tre spezie che riportano al medioevo, ai dolci curativi, cannella, noce moscata e chiodi di garofano, una degustazione povera di pregiudizi, quasi anestetizzante. Manca la contemporaneità ed è una ricetta alleggerita. Prima si abbondava in maniera stordente. Le giromette sono foto, sono ricostruzioni napoleoniche in pasta di pane, le brazadelle sono ostie. La povertà claustrale è ormai un tempo rifuggito, senza orli, preso a badilate dal tutto morbido. Due schiaffi gastronomici sono la base per camminare in mezzo ai segreti…
Parlare dietro il buco di una porta serrata, provare a capire dalle monache se ancora producono quella rara formaggella conventuale, apprendere che il latte dell’unica vacca, in questo periodo, serve ad allattare il vitello, perdersi nello sconforto perché quello che ha senso non lo avrà per me, attiene a quel fedaulesimo post-moderno che contrasta con la voglia di sapere totalizzante. Il panteismo non prevede la delusione…
E così passo sotto le volte, entro in lavanderie del tempo che fu, prendo l’umidità dalle mure e capisco che la gentilezza di Marina e Giancarlo ha quel fondo antico per cui nessuno è uguale ad un altro. Me ne vado e provo a tornare nella contemporaneità della disputa… che non si fa attendere…