Roccapalumba. Sagra del ficodindia. Ottobre inoltrato. Il paesaggio lunare, dove gli insediamenti umani prendono posto dei paesi, ha quell’estensione agricola senza eguali. Il territorio ha i colori dell’inaspettato. La pietra lascia spazio all’erba che lascia spazio al grano bruciato. Ogni tanto le contrade di agricoltori vanno a definire quella Sicilia molto più verosimile di qualunque ricostruzione: quella del racconto. Dove i grandi scrittori facevano passare carrozze, alzare polveroni e succedere disfide, la contemporaneità ha continuato, senza l’impellenza del domani, a far passare carrozze, alzare polveroni e succedere disfide. Niente è cambiato. Ecco l’errore. Né nei volti né nell’urbanizzazione di un territorio che non ha mai avuto un senso di possesso o di utilità. Quelle strade, tra Caccamo e Roccapalumba, esistono per se stesse. Per far passare, affascinare e fare andare. Addirittura fino alla triviale Sagra del Ficodindia, dove i volti e i modi di fare sono l’unico interesse al di là di tutto. Il resto, sono bancarelle di imbonitori, venditori, conciatori e deliranti piazzisti. Una sfilata di abiti LSD style e una degustazione gestita dal notabile della gastronomia locale, dedito ad ingordigia piuttosto che ad arricchimento. Così la povertà gli torna in saccoccia sotto forma di tavole vuote e casarecce al sugo di ficodindia del meno gettonato chef di paese. In questo delirio, aspetto Liborio Mangiapane, nomen omen di uno dei salvifici allevatori della razza Modicana.
Arriva con il tempo siculo, accompagnato da un agrituristico produttore di pecorini (ottimo latte e caseificazione da rivedere). Non cambia espressione alla conoscenza, nemmeno al complimento, né alla domanda e neppure all’insidia. Liborio Mangiapane è uno di quei signori siciliani che il tempo si è portato in grazia. Uno di quei modi di fare da nichilismo perduto. Dalle abitudini familiari, da quelle tradizioni coatte e ataviche che nulla possono lasciare all’incedere, lui ci ha tirato fuori delle scelte definite, assolute, terrorizzanti. A Cammarata, prime pendici dell’agrigentino, disperso nel mezzo dei Monti Sicani e di quella statale per Palermo che ha l’apriorismo fideistico di lasciare gli animali al pascolo, davanti all’evidenza di avere un pascolo (a differenza di tutte quelle terre emerse dove l’aria è un lusso per riprendersi dalla puzza…) da utilizzare, non è così semplice essere dissonanti. Il cicaleccio è quel rumore di fondo che tutto porta nel gorgo. Allevare la razza modicana, undici mesi di pascolo, fieno autoprodotto, caglio da abomaso (almeno per il caciocavallo), meno di cinquanta quintali di latte l’anno cadauna, non è la normalità di un lunedì mattina. Allevare e caseificare -con un padre sopra gli ottant’anni che continua a collaborare, una famiglia e un paio di operai – tutto da sé, senza un riscontro che non sia la vendita, senza una bambagia territoriale dove rilasciare la critica o chiedere un consiglio, non è la normalità di un lunedì mattina. Liborio produce un caciocavallo senza alcun senso, con quei retaggi talmente definiti da risultare stonati, da risultare sotto forma di affermazione “non sembra nemmeno prodotto in Sicilia”. Latte crudo, caglio e sale. E qui ci siamo. Pasta filata con acqua a cento gradi circa. Pressatura e stagionatura che, rispetto ad un ragusano (che viene affinato in cavi pendenti e formaggi legati…), viene proseguita su tavole di legno. Il resto lo fa la sapienza e l’alimentazione. Quella fatta di cereali, di favino e di erba medica. Quella che il fermentato non diventa insilato ma rimane un supporto per i giorni più freddi o più caldi. Un anno di invecchiamento. Il sapore è di una dolcezza estenuante. Tutto palato, sale controllatissimo, di una finezza di retroguardia. Arrivano retrogusti floreali ma soprattutto nessuna secchezza e nessuna sapidità. Non particolarmente sfogliato, pasta giallo-napoli e senza spaccature, indice di perfetto controllo di umidità. Un formaggio siciliano straordinario. Senza zone d’ombra.
Liborio ha deciso di dedicarsi alla filatura. Qualche scamorza, qualche affumicatura e qualche guastedda (o vastedda) sempre di vacca. Niente mozzarella perché ha un’acidità poco interessante e difficile da trovare nei suoi foraggi. Ha preso la Modicana dal suo trisavolo. Nessuna moda e nessuna congiuntura favorevole. La razza è lì dall’alba dei tempi. Le Podoliche sono scese dal Nord millenni fa. Sono scomparse e sono rimaste. Qualcuno ha deciso di allevarle e di non incrociarle. Lui se l’è trovate tra le mani e sta cercando di valorizzarle. Carne, latte e lavoro. Nessuna specializzazione. E così è, anche nelle intenzioni di Liborio che, grazie a Salvatore Di Fulco, macellaio in quel di Monreale, sono diventate fatto.
Ha quella rettitudine rarefatta da giacca stretta, spalle larghe e sguardo fiero, chiede di provare con mano, di andare, vedere e rendersi conto. E soprattutto chiede di far parlare il prodotto e non i suoi racconti, la sua storia e le sue tradizioni. Così non posso fare altro che seguirlo al termine della notte. Allevatori, casari, pascoli e formaggi. Il volto di una Sicilia senza clamore, di una terra che non ha bisogno della magnificenza per parlare di sé. Né in positivo né in negativo. Quello che resta è assenza di chiacchiere. Lì comincia la procreazione…
AZIENDA AGRICOLA LIBORIO MANGIAPANE
CONTRADA CASALICCHIO
CAMMARATA (AG)