Alle Radici di quel che resta… Famiglia Ruiu/Gaddi

radici

Alpe Blessagno, sopra San Fedele d’Intelvi. Dieci kilometri dalla mondanità, da quel Lario che non è altro che approdi, curve, silenzi e misteri. Le prime curve si snodano, poi comincia il bosco senza pascolo, qui le bestie hanno preso la compulsione dei loro padroni. Stalle piene e verde scuro, così le valli lombarde continuano ad adombrare se stesse, tenendo lontano quel turismo da foto ricordo e indelebile ricerca della bellezza. Qui si chiude tutto, i bar non sono azzimati, gli alberghi sono scaduti insieme ad un viandante preso da posti più preziosi. Le colonie non bastano più, i divertimenti sopra i duemila metri non sono di queste valli e così le malghe romite alla ricerca della pace. La vista che resta è verso montagne di altre regioni e di altre nazioni, in quel fluire di confine che ha trasformato le tradizioni in rughe senza un desiderio, senza una brama di modernità e di visi sbarbati. Sui manifesti campeggiano ancora divisioni post-belliche tra fascisti e comunisti, qui si parla alla gente seguendo i problemi reali, scendendo in piazza perché tanto ci si conosce tutti. E così per trovare ancora un po’ di realismo bisogna percorrere un kilometro di strada dissestata, meglio se accompagnati, per giungere in una radura riconciliante, di fatica prima che di poesia.

Sebastiano Ruiu e sua moglie Raffaella hanno deciso che lì, in quel luogo, che una volta era stalla, caseificio e pascolo remoto di qualche camminatore straniero dalla faccia sperduta, un rustico avrebbe preso le sembianze della dedizione. Così hanno aspettato. Il passaggio delle due figlie femmine che si sono erudite, prendendo la strada di andata e ritorno verso la metropoli, e gli studi di Giacomo. Agraria in Val Camonica e l’impazienza di non poter più attendere. Così il rientro, circa quattro anni fa, con l’idea di un agriturismo, che fosse abitazione, lavoro e ospitalità.

Raffaella ha preso in mano le redini dell’estetica, ha trasformato la vista in un riposo fuori dallo stress, le camere in una premura e l’accoglienza nella forma più originaria di cura, quella che non chiede indietro, quella che si ricorda tutti i nomi, tutte le abitudine, tutti i ritorni. Così da riuscire a prevedere le voluttà, rimanendo sempre un passo indietro.

Sebastiano è arrivato tanti anni fa dal golfo di Orosei, in Sardegna, ha immaginato le pecore e si è ritrovato in mano le capre. È partito con Camosciate classiche e poi ha deciso per la rivoluzione, in un tempo che non aveva ancora un pensiero ma aveva certamente una libertà. E così il suo sguardo non inganna, è privo di sovrastruttura, ha una purezza indefessa che nell’artigianato non può mentire. E così il suo vulcano si esprime nel racconto, in quella capacità di leggere gli occhi dei suoi animali, percependo il problema e la sostanza. Senza nerbo e senza bastone. Con il richiamo di un’abitudine che è rimasta tale. Senza il romanticismo del tarassaco raccolto e della domenica con lo zaino in spalla ma con l’esigenza di imparare ogni giorno. Dalla natura e dalle persone. Con delle regole ben chiare e una sola passione: Nera di Verzasca. Una razza autoctona di quel triangolo insubrico tra Svizzera, Varesotto e Comasco, in quelle vette senza neve e con il ghiaccio consumato in inverni dalle stalle facoltative. Perché lui ha fatto delle prove, è entrato in associazioni elvetico/luinesi da dove dirimere qualità e morfologie di capre e latte e in cui interagire con quei pochi allevatori che hanno creduto in una razza più rustica e meno performante. Così ha messo da parte la contemporaneità dell’energia elettrica, ha ricoperto la mungitrice, ha ricominciato a mungere a mano le cento capre (ora scese a una settantina), ha eliminato i mangimi dall’alimentazione, preferendo falciare i fieni mantenendo all’interno la carica proteica, e ha continuato a caseificare a latte crudo in assenza di fermento. Capre ad erba tra l’alpeggio e il bosco.

Il formaggio non ha definizioni e non ha categorie. Sono quasi tutte cagliate presamiche che variano nel tempo, stagionano al buio su assi di legno, hanno croste che sembrano arrivare da salamoia pur non passando per soluzioni acquose, cambiano le temperature di cottura di cagliata, cambiano le rotture, gli spurghi, cambiano anche le paste. E così quelle semi-cotte possono stagionare a lungo, quasi tre anni, e tirare fuori dei gusti incredibili. Nessuna cicca, bella masticazione, profumi contenuti che superata la soglia dell’umidità iniziano a rilasciare lattico. Piccole forme incredibili, con concrezioni contenute, una pasta sul grana andante e un bouquet floreale lunghissimo. Nel paio di mesi, invece, queste croste grigie da caciotte di un tempo che fu, hanno un bell’equilibrio, masticazioni incisive, ma mancano di profondità.

Sebastiano sta cercando di trasmettere i saperi e la fatica a suo figlio Giacomo, l’estremo lembo di un’apparenza che è molto oltre qualunque velleità. Una persona riflessiva, assolutamente fuori dagli schemi della sua generazione, con il vezzo del fare bene e della gentilezza. La tracotanza è l’invenzione permessa dagli argini. Ma qui gli argini si sono rotti molto presto. E così sono arrivati i maiali allo stato brado, vacche da carne e da latte, asini, lama, coltivazioni di frutti di bosco, un pollaio a cielo aperto, un piccolo orto e una possibilità di poligonacee assolutamente sensibile. Giacomo ha lasciato l’università perché l’insegnamento aveva necessità di uno sfogo, bisognava vivere di giorno e non di notte, bisognava portare su i turisti da Blessagno con lo stesso sorriso con cui condurre le capre al pascolo. Ma non per obbligo, perché qui il futuro è stato deciso come mezzo e come fine, vedendo in Giacomo la realizzazione di qualcosa di raro, di un luogo come Le Radici, che rimangono il sostrato di ciò che resta, l’insediamento identitario che da qui può muovere una divulgazione di un territorio dilaniato e profondo…

AGRITURISMO LE RADICI

ALPE DI BLESSAGNO

BLESSAGNO (CO)

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