Bleu de Termignon: epopea e segreti di un erborinato leggendario…

Termignon è al bordo del Moncenisio, sul termine di un pianale che contrappone forti, fiumi e una bellezza delicata che non sovrappone le valli al mal di testa. È tutto molto piacevole, largo, idialliaco con quel po’ di operoso tra i legni tagliati e qualche fabbrica integrata. Nel paese ci sono più rivendite di formaggi che abitanti, l’Italia è dietro l’angolo di un confine che ormai è possedimento e dimenticanza, qui il turismo sostenibile si è talmente sostenuto da essersi messo alle spalle i retaggi e le battaglie, allontanando la concorrenza cisalpina e mantenendo in solitaria l’originarietà di un prodotto leggendario. Il Bleu de Termignon, il nostro Murianeng (o il Blu di Moncenisio), un tempo, si produceva alla Stazione Sperimentale di Sauze d’Oulx. Ora più nulla. Solo quattro/cinque contadini alpeggiatori francesi portano avanti una tradizione estremamente complessa, di cagliate acide, assenze di inoculi ed erborinature naturali.

Raphael Bauntin e Frederic Muller (insieme a sua moglie Murielle) sono due di loro, uno lo produce solo in malga l’altro tutto l’anno, contravvenendo alla storia (per le nonne sarebbe inconcebibile portare avanti la produzione fino a dicembre) e venendo incontro alla primavera. È un formaggio di cui si parla poco e si conosce ancora meno, soprattutto in paese, ci sono poche indicazioni e molto sottobosco. La possibilità di trovare qualche forma sono ridotte al caso, busso a varie porte, mostro carte e speranze, trovo tanta cordialità, un forse e una forma conservata.

Dal legno anche qui si è passati alla ceramica, le forme vengono bucate con un ago per penetrare all’interno e permettere che l’aria possa penetrare in una delle due cagliate sovrapposte, generando le muffe. Trafiggerli ad agosto per averli blu alla fiera di Termignon, la prima domenica di ottobre. La vista non sempre soddisfa la dogmatica, ma il gusto non inganna: alcune forme possono rimanere bianche e sviluppare una proteolisi poco accentuata ma in bocca esplodere lo stesso in frutta matura, latte e funghi. La cagliata inacidita serale viene mischiata a quella del mattino, le spore iniziano a svilupparsi, si caglia, si rompe e si ricompone in teli di lino per una lenta spurgatura e poi per la pressatura. Nei mesi inizia a granarsi e ricomporsi, in quell’alea casearia che per poche centinaia di forme all’anno non viene nemmeno più codificata. Si può bucare, tagliare, spezzare o sbriciolare. Le muffe sono nell’aria e nella sapienza di pochi allevatori che han deciso di resistere agli erborinati da schiaffoni per una delicatezza setosa, impareggiabile…

Pasticceria Ugetti: ai confini dell’impero… Franco Ugetti

Bardonecchia è al termine di un Piemonte inadeguato, ormai solo passaggio e turismo disturbante, in fondo a quella Val di Susa che ha sostituito la pietra con il disarmo. Così, quando la ribellione profusa e puzzolente è arrivata al finto dunque, si è ritratta nella sua voglia di camino, di piste da sci e di prodotto tipico. Ma Bardonecchia, quando è stato costruito il traforo ferriovario del Frejus, è diventata l’ultimo avamposto delle merci tra Italia e Francia. Qui arrivavano tonnellate di arance dal meridione e i nativi, come gli acciugai in Val Maira, appena fuori dalla stazione, dividevano la buccia dalla polpa per favorire il lavoro di canditura, fulcro dolciario di un Piemonte che è stato ricco attraverso l’adombrato. Tra queste vie, ai bordi della stagione, la pasticceria tradizionale non è mai diventata una discussione e la famiglia Ugetti continua, alla sua maniera, una strada candida e invisibile. Continue reading Pasticceria Ugetti: ai confini dell’impero… Franco Ugetti

Monastero della Badia di Alcamo: bocconcini con la confettura di zucca serpente…

Alcamo è sempre più un luogo cardine di una Sicilia che interessa solo agli agiografi e alle persone che nella reticenza hanno trovato il tempo quotidiano. Nascosta davanti ad una natura irlandese e primaverile, tra rocce, pecore e un vigore che è molto oltre l’immaginazione, l’aprile siciliano è un tornante, un girovagare ed un sentir l’eco. I vigneti cavati, le strade con le buche, i muretti a secco, i ravveduti nascondigli, il mare ancora incellofanato e la sabbia principesca sono dettagli che con il concentrarsi delle stagioni e dei diletti, intenerendosi in un’intimità pudica, si perdono, per lasciare spazio al disordine. E così anche l’Alcamo sonnacchiosa, dove gli artigiani gloriosi possono ancora fregiarsi di un territorio unico al mondo, si rimettono alla vendita come ultima forma di processione. Si saluta il santo, si fanno gli inchini e poi via verso un nuovo letargo. Fermare il tempo di questa Sicilia diventa un principio di pensione. E così, per sprofondare ancora meglio nella virtù, mi rimetto agli sguardi di due monache di clausura… Continue reading Monastero della Badia di Alcamo: bocconcini con la confettura di zucca serpente…

Giromette, mostazzini, brazadelle: i dolci del Sacro Monte … Marina Lonati e Giancarlo Di Ronco

Sacro Monte di Varese. Giornata uggiosa. Nebbia che s’incunea e vista che non spazia né fino a Milano né fino a Varese. Quattordici cappelle, una borgata, modeste chiesette che sono diventate sfarzose chiese barocche, quadri e cripte. La storia che si è mischiata alla leggenda, Agostino e Ambrogio che si sono incontrati, famiglie nobiliari che hanno mantenuto la distanza dal capoluogo e una serie di architetti succedutisi nella creazione di un patrimonio prealpino in mano a pellegrini, ma solo nei giorni di sole. Tutt’intorno, finestre posizionate per non dare il fianco agli invasori, alloggi, grate di clausura e una serpentina interminabile di ciottoli che si schiacciano sotto portici senza coordinate. Azzeccare la strada giusta è quantomeno bizzarro. Per caso, arrivo all’unica bottega della frazione. Continue reading Giromette, mostazzini, brazadelle: i dolci del Sacro Monte … Marina Lonati e Giancarlo Di Ronco

Confetti… simbolo, dolcezze ecc…? No… Cacciato per troppe affermazioni o per troppe domande? (ovvero specchietti per le allodole)

Varese. Una città con vari doppi sensi, tante precauzioni e una borghesia troppo spesso data per impellicciata e trovata per impelliciata. Reazionaria, di quella forma scomoda che guarda solo i piedi, e uggiosa, di quella comunicazione talmente razionale che non ha bisogno di molte parole. Tra il carino e l’umido, tra i laghi, le frontiere, le valli e le montagne basse, questi sono luoghi in cui risiedono i residenti, passano i pellegrini, gli animi lacustri e i tetragoni, e non rimane altro che affidarsi ad una quotidianità produttiva che delle facce ritorte ha fatto un credo.

E così ho preso una tranvata in faccia… Continue reading Confetti… simbolo, dolcezze ecc…? No… Cacciato per troppe affermazioni o per troppe domande? (ovvero specchietti per le allodole)

Per una gastronomia “engagé” (impegnata)…

Togliamoci un po’ di maschere e un po’ di vestiti, lasciamo da parte sarcasmo e ironia, proviamo a raggomitolarci in un cantuccio riflessivo e a intendere che il tempo della sapienza non ha attecchito, si è chiamato fuori e ha lasciato l’Italia in mano ad un fatuo frivolo volubile gommato e indolente. Fuori i pasdaran del giornale, dentro i progressisti illuminati delle serie tv. Il pesante, quel bel polpettone slavo anni ’70, fuori, dentro le sfumature sofiste. Dentro l’UMIDO, fuori il SECCO. E così i gusti si sono ammorbiditi, dentro la mollezza del ventre, i divani mentali, i travestimenti buffi, fuori i bastoni, le carote e il manicheismo. Il relativismo è l’altro lato della medaglia, sempre e comunque. Guardi gli chef belli tronfi, sorridenti, parlare di food cost, che vale solo per costo d’acquisto e mai per quello di vendita, guardi i critici che ormai sono riusciti a giustificare la combutta come necessità di crescita, guardi la dialettica scadere in diplomazia e sorrisi, e capisci perchè la sinistra non ha più nulla da rivendicare. Moralmente, intellettualmente e gastronomicamente. Ogni produzione è diventata cultura, ogni forma è diventata arte, ogni compromesso è diventato necessario. È tutto bello, straordinario, interessante, nuovo, rivoluzionario. È tutto troppo culturale. Continue reading Per una gastronomia “engagé” (impegnata)…

Tradizioni dolci torinesi… Walter Gallizioli

San Mauro Torinese. Sotto il santuario di Superga, a cavallo del Po, dove le aziende, in maniera silenziosa, se ne sono andate, dopo essere apparse solo nel momento della scomparsa definitiva. In quella parte di cintura che va verso la ricchezza e verso la dimenticanza, sotto portici riflessivi dove i commercianti hanno mantenuto una staticità, all’ombra di torri e castelli scarnificati da una nebbia continua che non trasmette nemmeno la gioia delle cascine. L’industrializzazione è diventata design per accaparrarsi sia il tempo della festa che quello della bellezza. Perché nell’oltre lì, la critica non è più una sovversione ma un’inclusione. Quel po’ di circense che non non ha mai ucciso nessuno e che, anche nel giorno di feria, può diventare una passeggiata e un vanto. Torino è dietro l’angolo, impegnarsi più di tanto non vale la fuga. E così chi resta ha il compito infido di prendere il plumbeo per quello che è. Continue reading Tradizioni dolci torinesi… Walter Gallizioli

Il Dolce Canavese: nocciolini di Chivasso e marketing territoriale… Bruna Milanesio, Francesco Masera e Giovanna Bonfante

Chivasso. Cintura torinese pre-collinare. Un mix ideologico di fabbriche automobilistiche, Monferrato appena abbozzato, noccioleti affinché il Piemonte non si infanghi mai e centro storico dissolvente, con anziani riluttanti e giovani consumati. Chivasso è un luogo comune, normale, dove crescere, esporsi, investire e rimanere incartocciati in una vita borghese tendente all’operaio. Le chiese in latta, ripristinate ad una modernità meno consona, riecheggiano nel passato di cittadini che nelle campane han sempre manifestato la propria appartenenza. Si è mantenuto un decoro di case basse, sguardi bassi e portici bassi, perché l’intimità, in queste zone, rimane il cardine attorno a cui ruotare superstizioni e dicerie. I chivassesi passano oltre, guardandosi in tralice e definendosi al di là della campagna e al di qua dell’industrializzazione. Un po’ meno nascosta, Bruna Milanesio, insieme ad una gioventù illuminata, sta provando a raccontare qualcosa di più.

Una vita dietro le assicurazioni e una decina di anni fa la voglia di cambiare professione. L’adolescenza era ancora scuola dell’obbligo e così la solitudine ha portato avanti un tempo libero un po’ più confinato. Chivasso era ed è la patria di un biscotto tipico, minuscole meringhe alla nocciola: nel 1850, quando sono stati inventati da Giovanni Podio, Noasetti e diventati celebri nel mondo, nel ‘900, con il nome di Nocciolini. Simbolo di una città e perdizione ripetuta. Una di quelle cose per cui la qualità non deve mai prescindere dall’abbondanza. Uno tira l’altro e così anche Bruna ha pensato di partire da lì.

Poi sono arrivati canestrelli canavesi, ostie schiacciate alla piastra, la torta di nocciole, le paste di meliga, i baci di dama, le meringhe e i torcetti, tutti figli di quella tradizione piemontese che deve essere storia ma soprattutto affinamento. Così quando entrano in azienda Francesco e Giovanna, rispettivamente figlio e nipote, lei può tornare ad occuparsi anche della clientela, della vendita e dell’accoglienza. Giovanna frequenta il liceo artistico, si diploma in Cast Alimenti, fa lo stage da Fabrizio Galla e si realizza in un laboratorio a produrre i biscotti del territorio; Francesco servirebbe ad un sacco di artigiani italiani che non sanno come sviluppare mezzo progetto. Idee a profusione, negozi monomarca da aprire a Torino, marketing poco studiato e un’innata propensione alla compravendita.

Ognuno secondo le proprie possibilità, hanno portato strutture, sovrastrutture e pulizie, i prodotti sono tutti tra il buono e l’eccellente, nella meliga c’è troppo limone e ai torcetti manca un filo di friabile, per il resto c’è una territorialità distesa, senza compromessi, dove arrivano le nocciole biologiche che nel medio periodo verranno sostituite da quelle prodotte sui loro terreni, ci sono burri da sistemare e aromatizzazioni contenute, c’è una pasticciera alla base che, nell’adattamento, ha trovato la leggerezza della tipicità. Tra pochi anni i nocciolini torneranno a chiamarsi noasetti…

IL DOLCE CANAVESE

VIA SAN MARCO 24

CHIVASSO (TO)