Collecchio. In mezzo tra il Taro e i boschi di Carrega, in quella provincia parmense che si è dedicata in egual maniera ad industrializzazione e agricoltura, arrivando nell’empireo, sprofondando nel trinciato e riprendendosi in maniera dignitosa grazie alle facce degli astanti, di quelli che erano rimasti lì a guardare il progresso di una tradizione, tra facciate color pastello e piazze copiose di buone maniere, ritualità e chiacchiere. La provincia rubiconda, quella ingrassata dai silenzi e sempre più sanguigna verso il prossimo di passaggio, è stata l’ambiente ideale per la nascita di artigianalità uniche, di quel fazzoletto di terra riconosciuto nel mondo come paese del bengodi, dove vacche e maiali danno indietro il massimo del gusto raggiungibile. Collecchio ha una struttura romana deturpata e delle campagne che, senza mezzi termini, sono state portate a fondo nella scoperta e nello sfruttamento. Lì, a pochi metri dall’autostrada e dalla Parmalat, la famiglia Gennari ha creato una genealogia produttiva, rara anche da queste parti. Continue reading Un Parmigiano che ha intrapreso la strada della modernità… Famiglia Gennari
Categoria: Caseificio e Allevamento
Gli alpeggiatori d’inverno… Roberto Paggi
Prata Camportaccio, frazione di San Cassiano. Statale 36 dello Spluga. Uno di quei paesi che si tralasciano per arrivare ad un confortante bombardino, assisi al sole di valli che non hanno più niente da ridare indietro se non conformismo. I ganassa metropolitani si son presi tutto, lasciando qualche briciola sparsa e qualche traccia in luoghi manifesti e infestati da accenti locali, fiumi gelati e e un apporto alla montagna necessario e quotidiano. Qui, riuscendo ancora ad inclinare lo sguardo per trovare una giornata di sole invernale che riverberi lo stupore, la vista rimane intatta su un trivio di valli assolutamente licenzioso. Queste sono territori di miseria e nobiltà sperata, l’affaccio turistico è arrivato nel tempo, quando l’immigrazione era già partita ed era già tornata. La poca terra era luogo di pura sopravvivenza, di cereali scomparsi e di lunghe gelate invernali, qui si guardava alla fuga come ad uno dei pochi benesseri. Rendere operai i contadini non è mai stata un’operazione di sollievo e così, chi ha potuto, è tornato alla terra e a quella genealogia che non si può mai nascondere. Continue reading Gli alpeggiatori d’inverno… Roberto Paggi
Valsamoggia: una storia d’imprenditoria e formaggi… Gabriele Manzini
Quello che fu Monteveglio e che è Valsamoggia, la fusione di luoghi distanti, di territorialità dissepolte e di hinterland che diventano colline e montagne. L’agricolo non è stato soppiantato del tutto dall’urbanizzato e il paesaggio, abbandonato al selvatico, rimane possedimento di quei colli che, al di là dei vigneti, mostrano ancora cieli tersi e obliqui impossibili da non fotografare. C’è una ripetizione continua di dialettica fascinosa, l’agriturismo, l’agriturismo da tortellino in brodo ed eretica rivisitazione con la panna, saliscendi continui, curve a gomito, orizzonte sconfinato e un tempo della sosta che non è mai noia. Così spariscono le fabbriche e appaiono le scenografiche costruzioni in pietra abbandonata, un segno umile che la collina si è presa al di là delle rotonde e delle linee dritte. La Valle del Samoggia è un fluire di calanchi e tradizioni, una comunione d’intenti prima che unione d’interessi, dove i mulini sono ancora mulini e le pievi possono esprimere ancora la funzione rurale di aggregazione e di campagna. Qui, pochi metri dopo il mercato e pochi metri prima dell’oblio, la famiglia Manzini ha deciso di rielaborare il proprio punto di vista su commercio, artigianato e tradizione. Continue reading Valsamoggia: una storia d’imprenditoria e formaggi… Gabriele Manzini
Valgerola: il Bitto fino alle origini…
La Valgerola d’autunno ha quella magia rara che spiega meglio al mondo la sua chiusura, quella bellezza racchiusa in colori che non sono più passeggiate e fatica, ma cominciano a mostrarsi come lunghe attese dietro un vetro innevato e non realizzato, tempo su tempo per aspettare l’alpeggio e i pantaloncini corti. L’autunno è luogo di lunghe discussioni, di analisi, di lunedì mattina senza speranza e senza economia. Qui si va in letargo, perché la chiusura deve essere prima di tutto tepore e in seconda battuta conservazione. E così le labbra nascondono i denti e l’introversione può tornare a dominare la maniera di accoglienza. Il fiume Bitto scorre fin che ancora ne ha possibilità e su Gerola Alta si chiude un cielo di sfumature arancioni. Abeti, larici e faggi non lasciano spazio all’immaginazione. È tutto lì, scritto, ma con fascino. Senza parola e lontano dalla commercialità che però un luogo del genere è come se reclamasse. E così ci hanno pensato Meister Ciapparelli e i suoi dissidenti a creare una corte bagnata alla fonte. Continue reading Valgerola: il Bitto fino alle origini…
Bagoss: dalla leggenda alla realtà … Famiglia Buccio
Bagolino. Nella Valle Sabbia dello spiedo, degli uccellini, delle trappole, del selvatico, dei cacciatori e delle castagne. Qui, dove i laghi sono rimasti laghi e non approdi turistici, l’arrivo della contemporaneità è un silenzioso e quotidiano svolgersi delle cose sempre allo stesso passo. A pochi centimetri dal Bengodi (leggasi Trentino), queste diramazioni, tra il Crocedomini e il Maniva, son sempre state terre di straordinari formaggi, di carnevali rutilanti, di zucchero amaro e di alpeggi incontaminati ormai sempre più vezzo di fotografi inesperti alla ricerca dello scoop o della volgarità. Bagolino è un posto remoto, dischiuso tra la nebbia grazie a strutture medievali e tetti rossi. Qui, boschi, brume e acqua rendono il reale una sovrapposizione di stati d’animo. Non c’è molto da indagare, è tutto una curva a gomito e una preghiera per tenere lontano il dirupo. Fare le cose seriamente, in un luogo senza lussuria, è sempre una sottile forma di ritorno. La morte è più festosa della resurrezione. E così, a Bagolino, per prevenire l’oblio, si portano perfino i celeberrimi campionati italiani di Braccio di Ferro, perché l’inverno che arriva è talmente una condanna da non lasciare per strada nemmeno le voci. Qui dentro, senza confini precisi, la comunità è ancora una comunità. Si respira all’unisono, al di là della ricerca economica. Continue reading Bagoss: dalla leggenda alla realtà … Famiglia Buccio
Cascina Rossi: una commistione di generi… Stefania Bozzo Poggio
Oviglio è un castello che deflagra in una pre-collina, in cui il selvatico è l’unica forma di comunicazione. Qui il coeso è una macchina, una stradina e un profumo di bosco che riempie qualunque passione. Da queste parti ci sono ancora ristoratori che hanno il coraggio di restituire i galloni, per tornare a mangiare con i clienti che li hanno creati, ritrovando il tempo perduto. Se in cerca di una riflessione v’imbattete in queste tartufaie naturali, dove il romantico ha il volto della decadenza e non della tendenza e dove il turista è l’eccezione e non la regola, allora potete rimanere a costruire il nulla per una giornata intera, spostandovi da un sagrato ad una macelleria fino ad un bosco di querce: alla ricerca del tempo libero, in quel rumore silenzioso che è molto più vicino alla metropoli di quanto si possa immaginare. Qui è difficile concentrarsi, mancano i punti fermi dell’eccentrico, è un luogo di noie piacevoli che non può portare che artigianato. Continue reading Cascina Rossi: una commistione di generi… Stefania Bozzo Poggio
Il formaggio di capra all’interno del dogma… Rita Challancin
Arnad. Paese di lardo e paese di inverni, freddi, gelidi quasi sepolti. Qui si coltivano le noci, le annate che vanno bene, e si nascondono i maiali, tutti gli altri anni. I lardifici hanno preso gli sguardi attraverso l’autostrada, i vigneti sonnecchiano tra rupi e forti e la montagna è un pensiero coperto d’ombra per buona parte della giornata. Qui si fa Fontina, si mangia Fontina e si vende Fontina. Le bovine valdostane si cibano di fieno valdostano e fanno formaggio valdostano. Qui consorziare è significato tirarsi fuori dall’autarchia, quella che ti faceva allevare tutto e ti faceva vendere un manzo da carne con cui coprirsi di surplus. Tetti in ardesia e case in pietra, la vecchiaia è l’unico motivo di ammirazione, qui sono riusciti a tenersi stretti i tavolini da briscola in quattro e il fascino della notte calata al di sopra di ubbie e patois. Qui, una ragazza poco più che ventenne, sta provando ad attualizzare una rivoluzione mai fatta. Continue reading Il formaggio di capra all’interno del dogma… Rita Challancin
Tenuta Maria: un luogo nascosto dove la bellezza non basta…
Cenate Sopra. Imbocco della Val Cavallina. Territorio senza legami, molto compito e altrettanto devoto, dove fuoriuscire dalle righe, finanche attraverso la bellezza, è una forma mancata di rispetto che non riesce nemmeno più a scuotere. Qui si va per boschi, si vedono i cambi delle stagioni, si va a messa e ci si conosce un po’ tutti e un po’ poco. Escursioni semplici, sentieri selvatici senza paradigmi, i rami s’intersecano sempre nei piedi e gli alberi chiudono più che aprire. Cenate Sopra è un posto tranquillo a metà strada. Senza fascino e senza attualità. Di una bellezza spoglia ma assolutamente quotidiana. E così bisogna uscire dal paese, sbagliare strada, inerpicarsi e tornare indietro. Tenuta Maria è un luogo fuori, esteticamente perfetto in un nascondimento profondo, quello della provincia bergamasca e quello di una gestione che ha provato ad arrivare attraverso il silenzio.
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