Etno-antropologia applicata alla terra… Nicola De Gregorio

fastuchera

Cammarata e la sua enclave San Giovanni Gemini. Una Sicilia contingente e insostenibile, un incedere di luoghi stanchi e prepotenti, dove l’edificazione non ha più un sostegno dalla storia. Feudalesimo, Conti e Commercianti hanno imperato, diviso, ripreso, creato tradizioni e affastellato le stesse che si sono fuse e confuse. Santi, feste, bizantini, romani, vendita d’indulgenze e raccolta di salgemma. Il tempo ha lasciato un castello che domina l’abbandono e riserve naturali straordinarie dove, al di fuori di vicoli ingannatori, su giardini e chiese protetti dalle invasioni, la macchia siciliana di asfodeli, roverella e corbezzoli rimane intatta in mezzo al grano già trebbiato, che colora di ocra quell’unica terra rimasta a rappresentanza di una Sicilia dipinta più vera del vero. Perché, al di là di ogni giudizio e di ogni immaginazione, qui serve solo un recupero, un rispetto e un recupero. E così il ruolo del cantastorie non può essere emarginato nella follia della verità, ma deve essere sudato, affaticato, con il volto coperto di scorie e di ingiurie. Il ruolo di salvifico paladino è toccato a Nicola De Gregorio, improbabile menestrello assolutamente integrato nella maniera e nel saluto ma rivoluzionario nello sguardo e nel passato.

Etno-antropologo e scrittore. Dalle carni arrostute ai dialetti popolari, ha girato in lungo e in largo alla ricerca del folclore perduto, tra sagre, feste di paese e madonne addolorate. Si è laureato, si è specializzato nella comunicazione di una tradizione che è riuscita a non diventare traduzione/tradimento, e si è fermato guardando all’origine, a sua moglie, alle sue figlie e a quella stanzialità che, a Gobekli Tepe diecimila anni fa ha reso l’uomo Uomo. Un nomadismo adulto che diventa coltivazione e rispetto. Sotto le pendici del monte Cammarata, da dove poter rimirare la sorgente dell’acqua fitusa e quei lasciti neolitici che hanno imposto alla Sicilia la profonda deferenza verso un artigianato di rimessa, di fatica, aperto all’insegnamento e vigile sul commercio. Nicola è diventato un contadino perché ha riscoperto: ha tolto la coperta a qualcosa di originario e di radicato che la natura aveva imposto alla sua terra. E così ha piantato una decina di ettari di grani autoctoni, oltreché antichi, timilia, maiorca, russello, i ceci e le lenticchie ormai scomparsi, i pistacchi (fastuche) tipici di questa zona tra Raffadali e San Giovanni Gemini, millenari e importati dalla Siria, che nella loro caratterizzazione e nel loro sviluppo ad abbraccio hanno dato il nome all’azienda (Fastuchera), i peri di Cammarata, una volte oltre le dieci cultivar e ora rimasti nell’indifferenza di una bassa produttività, Pirazzolo San Giovanni, Pisciazzaru, Pero d’inverno, Ucciardone, Facci Russi e altri nomi legati alle zone d’origine, al cromatismo o al periodo della maturazione, i susini Occhi di Voi e Cirasolu, i ciliegi, i fichi, i mandorli e gli agrumi. In piccoli appezzamenti ancora lontano da venire. La fruttificazione risplenderà, tra qualche anno, in mezzo ai grani e a quella didattica che prenderà la malerba trasformandola in un’opportunità, di sapori e di futuro. Frutti antichi, dimenticati o semplicemente messi da parte perché poco produttivi. Nicola li ha rimessi in circolo attraverso la costanza e l’educazione, attraverso quel virtuoso che rimane etichetta molto più di qualunque conversione. E così ha trovato in Minardo di Modica il pastaio che faceva per lui e che gli ha trasformato le sue farine integrali e macinate a pietra (dal Mulino Riggi) in qualcosa molto al di là della fibra e molto al di là della certificazione. Lui segue tutte le lavorazioni e si è lasciato del tempo indietro per non doverlo ritrovare poi tra vent’anni macerato dalle intemperie e in disuso per il troppo disamore. Nicola crede fermamente ad un progetto di umiltà e di recupero, dove ritrovare la sua farina sotto un dente, all’interno di un quadruccio, non può essere un fraintendimento, una semola o un qualunque grano antico, ma rispetto e identità.

E così ha deciso di sposare un territorio, di mapparlo, di girare gli angoli, di conoscerlo e di riportarlo sempre al presente, all’allontanamento dell’abbandono e ad un modo di fare rituale e di una cortesia rutilante… senza piaggeria e senza maniere… così come è la terra siciliana, quell’ocra che ha reso la Sicilia più vera del vero…

FASTUCHERA AZIENDA AGRICOLA

VIA CASERTA

CAMMARATA (AG)

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