Provincia di Piacenza. Tra la Val Trebbia e la Val Tidone. Un territorio sopraffatto da una bellezza tenue, che nella collina ha sperato e dalla collina è stato rifiutato per il troppo senso. Qui ci sono ancora gli artigiani, le buche sulle strade, il disinteresse come forma coercitiva di sopportazione e un vincolo culturale molto prima del riguardo. Sagre nei capannoni, tortelli con la coda, coppe regressive, zucche e contadini da vino. Qui anche il presente è notevole. E siccome ho già dato, vado alla ricerca del pruriginoso, del lascivo, dell’allotriofagia. Cerco la robiola Nissa, quel formaggio coi vermi al di qua del mare.
C’è un mercato, ci sono ancora dei pastori, c’è una chiarissima forma di reticenza e soprattutto c’è una sopraffazione culturale che non pone più nemmeno le giuste domande. Così finisco ad una festa paesana irrinunciabile e mi danno il nome di una frazione in mezzo al nulla. Il barista del paese, che scoprirò poi abile consumatore, non sa chiaramente nulla. Mai sentito e mai mangiato. Io faccio l’ultimo kilometro e una cacofonia mi precede. Lui c’è, le pecore anche, il formaggio pure. Separato dai restanti pecorini, viene attaccato dalla piophila casei (la mosca del formaggio) che, sullo strato esterno, depone le sue uova. Queste, diventando larve, si nutrono del formaggio stesso, impastandolo e cremificandolo enzimaticamente. Il locale di stagionatura è aperto e caldo per favorire lo sviluppo. Dall’altro lato stagionano i pecorini semi-duri classici, ottimi sapori, stanze troppo asciutte. Chiaramente, il verme è vietato, la Nissa è un formaggio che della Sardegna si nutre e nel trigeminale impastato muore… il tempo del proibito rimarrà sempre il tempo che può privarsi della qualità. Una volta nella vita bisogna andare dall’altro lato…