Iconoclasta solitario irriverente allevatore… Sergio Serra

Borgata Superiore. Marmora. 1530 metri. Estate e case aperte. Una decina di famiglie rilassate si godono il passeggio di esploratori e refrattari metropolitani alla ricerca del selvaggio. Si abbandonano le macchine, si beve acqua di sorgente, s’inala l’odor del fieno e ci s’imbatte in borgate e cimiteri che determinano ancora colori, che mostrano affreschi, che non hanno sostituito il compensato al legno e che si trovano desiderosi al di fuori delle curve, in quell’immaginazione che si nutre continuamente della scoperta. Questo d’estate. Poi cambiano le stagioni, arrivano le nuvole, il Monviso si fodera, le giornate si accorciano e il freddo comincia col lambire per finire col coprire. Iniziano le nevicate e le gelate, le strade s’imbiancano, le borgate si svuotano e qui su, tutto l’anno, rimane solo la famiglia Serra. Sei/sette persone in tutto. Tre giovani, due studenti che vanno avanti e indietro con la corriera e uno sciatore di fondo, Sergio, sua moglie Valentina, suo fratello e sua madre. Il risicato resto sono qualche decina di vacche Piemontesi al pascolo e un ricovero per il grande freddo.

Qui si continua una tradizione, si fa il formaggio, si sperimenta qualcosa, si nascondono i tecnicismi, s’impiega tutta la famiglia, si munge a mano, si traggono mai più di dieci litri al giorno a vacca e si lavora un latte straordinario. Erba e fieno primavera ed estate, un po’ di fioccato d’inverno. Qui non si alpeggia, le vacche vagano fino a 1700 metri, praticamente, sempre. Sparse per la montagna, Sergio le deve andare a recuperare, deve fare il fieno, deve combattere contro lupi e burocrazia, si è adattato a vedere passare Frisone e Brune Alpine con il triplo del latte prodotto in montagne dove la bianca Piemontese, prima che la Fassona diventasse l’unica dea dei culoni, è sempre stata la normalità della triplice attitudine. E così ha deciso che lui non avrebbe smosso di una virgola la montagna e che, finché il reale bisogno non avesse bussato alla sua porta, avrebbe continuato con i suoi numeri esigui, con i suoi pochi formaggi, con le sue cantine naturali e con la possibilità di un futuro agrituristico dove i figli non siano costretti ad andarsene.

Sergio mi prende dal finestrino dell’auto, condivide la sventura, è ironico quanto basta per non togliersi gli stivali del racconto, lascia immaginare e gioca sull’incomprensione. La sua famiglia è lo specchio di un’educazione che lui non ha mai cercato d’imporre. La sua comunicazione è gettata in mezzo ad un nonsense a metà tra Frank Zappa e Nino Frassica, dove l’interlocutore è sempre interdetto, dove le scuse assomigliano ad una domanda retorica e i complimenti ad una critica ferale. E poi ci sono i formaggi…

Un Nostrano d’alpe, pasta cruda, spurgato bene nonostante una punta d’amaro eccessiva, tre mesi di stagionatura, quindi pronto e d’erba perché sostanzialmente d’alpeggio continuativo, profondamente animale, pieno, fondente in bocca, con decadimento al naso più rapido rispetto ai suoi simili e un floreale che nel tempo tende ad aumentare. Un formaggio da mangiare a chili. Ma non basta il mio entusiasmo per smuoverlo alla mia reale bramosia. Il Marmorin, un simil Castelmagno fatto in Valle Maira, che Sergio produce in poche forme e che vuole far stagionare di più, è il mio obiettivo. Il mio volto sempre più implorante lo fa cedere. Lo taglia. Un accenno di muffa, doppia rottura, pasta granata, bianco avorio, un’unghia che inizia a mantecare, una crosta erbacea e un sapore che spiazza. Nocciola e amalgama, la bocca è piena, gli occhi pure.

Il folklore è lontano e il luogo non inganna, la vicina porta in casa delle frittelle, la comunione è sempre più rappresentativa e le anime vive riecheggiano maggiormente la loro presenza. Sergio è tutto ciò che si può sperare d’incontrare per contraddire il tempo morto e l’anacronismo delle rughe senza luce…

AZIENDA AGRITURISTICA SERGIO SERRA

BORGATA SUPERIORE

MARMORA (CN)

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