La convivialità è stata capita o è stata rapita?

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Convivialità. Una chiave di volta culturale. Da ricercare ai tempi dei Sumeri. Mangiare e bere assieme fortifica i rapporti. Reciprocità di relazioni e prossimità di commensali. Vivere l’altro in quanto altro in un movimento dialettico alla cui base c’è lo scambio. Un dare-avere emblema di una visione filosofica che nella differenza fonda la distruzione assolutista dell’identità dell’Io. Il mangiare, da definizione, è un atto che postula una relazione, una diade o una triade forse, un sistema di rapporti che si può allargare o che si può restringere, ma alla cui base rimane certa la presenza di un Io che consuma un alimento, che diventa corpo e ci permette di sopravvivere e di vivere. Nasce come gesto egoistico, di sopravvivenza prima dell’uomo, poi della specie, si raffina con lo sviluppo del tatto e del gusto, e si condivide per il piacere di vedere un riscontro e una conferma della nostra sensibilità nei confronti dell’esperienza.

La convivialità nasce solidarietà e si trasforma, nel tempo e nei tempi, in condivisione con un altro che non è possesso ma piacere, che può sì diventare inganno, attraverso l’attrazione e la finzione, ma che racchiude in sé i caratteri di un’appartenenza emozionale o religiosa, quell’appartenenza che è comunione, che è comunità e che è ritualità.

La convivialità, espressione profonda della convivenza, è un modo prossimo per trascorrere il tempo, una maniera di vivere la cucina come pratica collettiva, sia attiva che passiva, in cui intrecciare viver bene e saper fare, etica ed estetica, in un circolo virtuoso dove quello che prevale è la possibilità di realizzare le proprie intenzioni con gli altri e per gli altri.

Ci sono dei pezzi straordinari di Ivan Ilich, libero pensatore austriaco, sul tema della società conviviale che non attengono direttamente al cibo ma che lo sostengono come forma di libertà, in cui l’uomo ha l’opportunità ma non la necessità, perché in mano a Stato e Strumento, seguendo il proprio gusto, di sentirsi realizzato in quanto uomo: L’uomo non vive solo di beni e servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al come le cose sono fatte, né diritto di interloquire sull’uso che se ne fa: degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, sono privi di convivialità”.

Quindi la convivialità è qualcosa di strettamente legato all’homo faber e di diametralmente distante dall’uomo consumatore. La convivialità non si consuma, rimane nel ricordo di una decisione presa e condivisa. E così ci si sedeva e ci si siede a tavola, fuori dal consumo e dalla brama. In quell’appetito/desiderio non guidato dalla ragione che è il consumo di un pasto pre-consumistico, in quel consumismo che è già un comunismo, un mettere in comune qualcosa che non si consuma ma che rimane, sotto forma di amicizia e piacere. Eccola la trattoria, ecco il camino acceso, il vetro appannato, il fritto misto, il carrello dei bolliti, le sedie intrecciate, le tovaglie candide ma soprattutto le lunghe tavolate che, nell’attesa di prendere posto, e magari di contenderselo per non stravolgere la vicinanza d’intenzioni, diventano già comunicazione, discussione, relazione ma soprattutto atto. Una breve azione non imposta e pre-formale dove il contenuto principale non è il piatto ma il desiderio di stare insieme.

E attorno a questo concetto si è formato quello di ristorazione e di osteria, attorno al concetto di tavola si sono trasformate le nostre maniere di intendere la fruizione del cibo. Non ci sono mai stati divieti che non fossero quelli a servizio della libertà altrui, non c’è mai stata una discriminazione aprioristica verso una ragione informe, deforme e formata. Fino all’avvento di un tempo in cui il ristorante ha suddiviso se stesso, prendendo una parte di mondo e definendola, per incedere metonimico, ristorante stellato…

Non mi interessa analizzare il come, il dove e il quando, mi interessa verificare un subdolo passaggio deviato che ha portato i critici a diventare giudici (che ho tentato di analizzare qui http://ilsaperedeisapori.it/il-critico-gastronomico-e-mai-esistito/), i clienti a diventare – attraverso un’imposizione inconscia hauntologica (il passato mai esistito che continua a tormentarci come assenza cit. Derrida) in cui il fantasma è sempre contemporaneo alla presenzialità dell’essere in un’ontologia degli spettri in cui le entità inquietanti che vanno e vengono da una tavola (altrimenti detti camerieri/maître e sommelier) sono le ombre passate dell’insegnamento e dell’imposizione educativa -, i giudicati, e la porta d’ingresso una barriera di selezione dove la convivialità ha troppi requisiti da dover rispettare. E così si creano tavoli silenziosi, da due persone, con briciole tolte e vini versati, bambini lasciati o da lasciare a casa, una chiacchiera composta e mirata al piatto, al giudizio, in quell’algido rapporto giudicante/giudicato che cortocircuita se stesso rimanendo eccentrico alla tovaglia stirata.

Il problema, se di problema si può parlare, è che ci è stata rubata la convivialità come contenuto, è rimasta la forma di una comunicazione che si è trasformata solo in valutazione, dove abbassare le voci e dove i tavoli da due persone sono la normalità. Il ristorante stellato (con tutte le eccezioni del caso che non ho voglia di elencare… per una filosofia delle eccezioni sono pieni i fossati…) ha trasformato il piatto nell’unico centro, uniformando i margini e le periferie in una disinquadratura comune, dove ritualità, colori, modi di fare e di saper fare hanno costretto l’ambiguo nell’angolino, trasfigurando la forma in un format in cui la luce viene concentrata e compresa e la voluttà pudica ha preso il posto del desiderio grasso dove lo sconveniente era il mangiare troppo e scomposti. Ha inserito la misura all’interno della conversazione e della deglutizione, la ragione in un’istintualità efferata… la presenza è stata sostituita dalla latenza.

Sono diventati luoghi svuotati, privati, dove si destruttura, si scompone, dove la tradizione non può essere nostalgia (e quindi fantasma) ma deve essere rivisitazione, in cui l’atto del mangiare diviene quello del “pronto all’uso” partecipativo in cui distruggere un piatto facendone parte, adempiendo ai tempi e ai modi della performance. Il vociare è diventata una forma irrispettosa… come a teatro.

Questi non sono i miei luoghi, non sono luoghi di partecipazione e di affezione, sono luoghi deferenti e compiti dove tutto si trasforma per creare un solco sociale, per ritornare nei ranghi e ai ranghi.

Sentire i bambini, le tavolate e un racconto che non sia fredda cronaca e algida giustapposizione di ingredienti… il ristorante deve arrecare ristoro, ricostituire, riconfortare lo stomaco, non estenuare e consumare. Il pasto non si consuma ma si serba nella nostra pancia e nella nostra immaginazione, come nutrimento e come desiderio. Alla morte ho sempre preferito la vita…

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