La profonda disparità dell’alpeggio…

alpeggio

Ecco il nostro sogno del pascolo vagante. Un’immagine dai contorni poco delineati, fumosi, assolutamente pre-giudicati. Perché l’alpeggio è un versante talmente candido che a volte non si chiede più contezza della bontà. Il formaggio è definito dal luogo in cui viene prodotto e i palati iniziano a sentire sinfonie estive di erbe e fiori. Lì c’è una storia che andrebbe letta per paragrafi prosaici o per antitetici menestrelli.

Si parte 3500 anni prima di Cristo…

Ötzi, la difesa della bestia, la possibilità di sfruttare un luogo con stagionalità sfumate, proprietà ecclesiastiche, proprietà di vassallaggio, nobiltà rurali, comuni di media-montagna, comuni, frazioni, condomini, consorzi, comunità montane, privati. Oggi c’è una promiscuità di possedimenti che si è persa nella notte dei tempi e delle relazioni. Così ogni alpe ha la sua storia, ogni malga il suo maggengo rimasto o il suo maggengo consumato. È una storia di ruralizzazione tenue e di economia di sussistenza di comunità montane pressoché immutate nel corso dei millenni. Almeno per l’occhio viscido del metropolitano. Che è rimasto ignorante, che ha mostrato indifferenza, che è diventato concupiscente, che è diventato proprietario, che ha perso interesse, che ha comprato la televisione, che ha comprato la macchina, che ha comprato la seconda casa, che è diventato escursionista, che è scappato via dallo smog e che ha sostituito il crocefisso con la domenica bucolica alla ricerca di volti bradi da raccontare in ufficio.

E così ogni estate, tra la Liguria e il Friuli Venezia Giulia, si consumano quei tre/quattro mesi di diversità che non riescono ad essere raccontati fino in fondo. Perché dove ci sono i mezzi e dove ci sono i rifugi mancano la fatica e la necessità di dormire in sette nella stessa stanza, di fare maggenghi dove il giaciglio è un po’ di fieno sopra le vacche, di vedere la neve a fine maggio e di ritrovarla a metà settembre, di dover combattere due mesi con la pioggia, di vedere il termometro andare sotto zero ad agosto, di avere una carrucola per i generi alimentari, di vedere un prodotto distrutto dall’assenza, di provvedere alla fatica attraverso la critica della marginalità, di lasciare tutto un po’ perduto per provare a salvare le proprie bestie, di dare un seguito a quel retaggio familiare che non ha scelta proprio perché qui.

Il formaggio di vacca è la tradizione, l’abitudine di un’esistenza ad essere abituati. Non si sceglie. Così come l’alpeggio. È sempre una questione di ruoli, di lasciti, di dinamiche ataviche. Viene tramandato e in quanto tramandato è vittima della traduzione che può essere anche tradimento. Capire fino in fondo una non-scelta è qualcosa di divino… non ci appartiene. Utilizziamo categorie per riportare tutto verso il già conosciuto, verso l’apparato della nostra moralità. Così possiamo provare distanza, invidia, felicità, stupore e accessibilità. Possiamo confrontarci tranquillamente con quell’unica domanda veramente fondante che mi è stata donata inaspettatamente da una coppia improvvida su un alpeggio della Val Brembana: “Come fate senza televisione?”.

E così la costrizione verso una normalità inconcepibile che ha bisogno di un po’ di sporcizia, un po’ di sano dileggio e un po’ di arroganza, diventa un po’ più concepibile, sordida, vicina, umana… l’alieno torna in terra e uccide i cani…

L’alpeggio è un luogo selvatico. Questo è lo spazio della crisi, il crine da dove dirimere. Questo è il punto. Cazzo. Il nostro categorizzare è già in partenza pregiudicato. Le dinamiche che si sviluppano in malga, il rapporto tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e gli animali sono innegabili. Il ribaltamento della dialettica servo-padrone non porta conoscenza. I cani non cominceranno a dormire sui divani e nemmeno a mangiare con le mani. Rimarranno cani. Come è giusto che sia. Il selvaggio non è un film di Sean Penn con un imbecille alla ricerca dell’espiazione. Il selvaggio è lavoro, fatica, sopravvivenza, condizioni estreme, vendita, fottuta quotidianità, barbarie, temperie e avversità climatiche. Il tutto in una miscellanea di saperi antichi e antiche usanze. Anche l’omicidio può rivelarsi una necessità perché culturalmente depresso. E tutto questo non è assenza di giudizio, prevenzione o garantismo, è laida prova dei fatti. Da metropolitano con le mani morbide che ha provato a non empatizzare.

C’è un racconto che mi è stato regalato da uno degli alpeggiatori che ho sentito per avere un giudizio (cazzo manco le elezioni tedesche dell’autunno del ’33 hanno avuto una maggioranza così bulgara…) sul caso di Giacomo Romelli e del suo cane (ribadisco: gesto assolutamente da condannare…).

Anni fa.

Padre e figlio di dieci anni. Alpeggio. A metà settembre prime nevicate. Dopo due giorni di attesa, senza praticamente cibo, la decisione di scendere verso valle. Maggengo e letto in condivisione con le vacche. Disperazione. Fame. Stanchezza. Pioggia a distruggere il sonno e vacche sempre più magre. Si avvicinano due tipi alterati, indicando due cani legati ad una catena. Escono dalla capanna due persone distrutte “into the wild”. “Siamo animalisti”. Teste basse e nessuna risposta. A malapena la posizione semi-eretta. “Quei cani là hanno la catena troppo corta. Dobbiamo denunciarvi…”. Dissolvenza in nero. Tutto buio per tutti e in tutti i sensi… in quella che non è mai condivisione di punti di vista. Ma solo imposizione delle mani… “E lì non ci ha visto più…”…

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