Una famiglia in cui la Fontina intreccia altre storie… Bruno Jeantet e Mirella Paduano

Cogne. Parco nazionale del Gran Paradiso, dove i prati di Sant’Orso hanno impossibilitato l’uomo, rendendo la battaglia una questione tra vacche. Manca il selvatico di altre valli, manca l’ambiguo del tempo, sostituito bene dall’oscurità senza confini della notizia e dello spauracchio benestante e borghese, manca l’improvvisazione delle valanghe o l’azzardo dell’isolamento, ma il domestico ha un effetto contundente. Sul bianco invernale e sul verde estivo, il fascino non è altro che un non-luogo di continui sguardi, piste da sci di fondo, declivi appena accennati, una conca che si esprime in miniere, mulattiere e pesca alla trota. Con le vette tutt’intorno, dove gli alpeggi riflettono ancora su quale sia la miglior modalità per non estinguersi, la vallata può passare dall’incanto all’incombenza, perché qui quando l’avverso si mette ancora più contro, il cielo non ha pietà di molti. Qui si passa dall’idillio all’abisso senza l’opportunità della redenzione. I luoghi scoscesi e candidi hanno forse il tempo di mettersi dietro le mura domestiche ed aspettare. E così, in mezzo ad uno di questi prati, sulla strada che porta verso Valnontey, la famiglia Jeantet si è garantita il lasciapassare per la meraviglia.

La storia è da libro e un libro l’avrebbe anche catturata ma altre narrazioni poi se la sono portata via, ridandola indietro sotto forma di privazione e racconto di una vita contadina che non è emozione e passeggiate nei prati, ma lavoro inimmaginabile perché un’immagine ce l’ha ben chiara e l”attualizza ogni giorno, senza speranza e senza prosopopea. Bruno Jeantet è un’apparizione, qualcosa che non tutti i giorni accade. E così prima della leggenda, arriva il famigerato scorbutico, il giudizio prima del pregiudizio, Mirella, sua moglie, esce dal caseificio, lasciando alla suggestione di due occhi strappati alla grazia e all’aggressione di un assaggio. Bruno deve accertarsi di non gettare parole al vento e così interpreta il passato come salvezza, lanciando maledizioni verso modernità, burocrazia, Italia e volti sicuri. Superato l’orgoglio di non ammettere di amare il proprio mestiere, il resto è incanto. Lui e Mirella sono una dialettica di che cos’è la relazione, il matrimonio e la famiglia. L’amore (oddio l’ho scritto…) a cui tutti dovrebbero tendere. Sguardi, complicità e alterità. Ne beneficiano formaggi e figlie.

È un giorno estivo di fine anni ’80. A Cogne deve arrivare la solita corriera quotidiana. Ma quel giorno c’è attesa. Si aspetta una ragazza di Torino. Nessuno l’ha mai vista. Lavorerà un paio di settimane come babysitter. I maschi del paese agghindano il bar più del solito, si lanciano sguardi sul prescelto e l’acqua di colonia si spreca. Ma bastano pochi attimi. Mirella scende e incrocia lo sguardo che deve incrociare. Due settimane in famiglia e poi raggiunge Bruno su all’alpeggio Prasupiaz. Decidere di rimanere non ha nessuna attinenza con i progetti. Bastano pochi secondi e la vita smette di tenere conto.

Arianna, tecnologa alimentare che segue il formaggio anch’essa, e Marta sono quella continuità che richiama senza mentire. E quando sono tutti in alpeggio, compreso il fratello di Bruno, anch’esso arruolato in caseificazione, la melodia di passaggio non è più solo metaforica, ma una limpida “sonata incantatrice” che ammalia tra baite e formaggi.

Eccoci qui finalmente. Le scelte di Bruno e di Mirella sono idee coerenti ma non rivoluzionarie, seguono l’ordine consueto di quelle terre e di quella storia. La Fontina si fa solo d’estate in alpeggio e si fa senza fermento. Basta questo al riflesso condizionato e all’aumento della salivazione. Le forme sono giustamente rapsodiche, e perché l’erba e il clima varia, e perché la mano non è sempre la stessa, e perché l’assenza del fermento aiuta alla non standardizzazione, certe paste sono tirate, senza propionico, con amarezze erbacee molto distanti dal mellifluo contemporaneo, altre hanno le occhiature fini e disperse, una forma è più elastica, l’altra più fondente, una pasta semi-cotta bene, umida e stagionata 4/5 mesi nelle cantine di famiglia. Qui, d’inverno, si sgrassa e si fa il burro, si fanno tome, si aromatizza con il timo, si fanno yogurt, ma non si fa Fontina.

E così mentre la neve continua a non scendere, la trentina di nere Valdostane si preparano alla solita alimentazione fatta di fieni prodotti in azienda e proteine, la casa si scurisce tra il legno e una pietra raffinata di chi la cura non l’ha mai data per scontata e la famiglia antepone la domanda all’oblio, così semplicemente per rimarcare ogni giorno quel passaggio fondamentale che da un filo d’erba porta a un sapore…

AZIENDA AGRICOLA PRASUPIAZ

FRAZIONE VALNONTEY – RUE GRAND PARADIS 64

COGNE (AO)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *