Farina Bona: musicista, docente, mugnaio al profumo di pop corn … Ilario Garbani

Cavigliano. Valle Osernone. Canton Ticino. Svizzera. Si supera Verbania, si prende la costa dei limoni fino al confine, si arriva nella desolazione delle rotonde e delle pompe di benzina e poi si sceglie per la rilassatezza di luoghi solcati da bagni impavidi, all’interno di una predisposizione turistica che ha scoperto questo tempo come il migliore per la propaganda. Qui la costruzione è spesso un carattere discreto di bianco e vetro, nonostante il luogo, la decadenza e il paesaggio. La tendenza ticinese prescinde dallo sfondo, è un impulso poco coeso a lasciar da parte il confine. Così al culmine di una sintesi, a cavallo tra i binari di una piccola stazione di paese, c’è il ristorante di Agnese Broggini, classicismo elvetico dove il tempo delle pieghe non ha ancora messo radici. Vista, formalismo e grande devozione. Lei è oltre il piatto, ostessa raffinata, retaggio di un’epoca di spettri e macigni. Supero Intragna (e il pranzo) e mi dirigo alla meta. Casa di Ilario Garbani, un eclettico gentile, che nella sapienza continua a mantenere le mani.

C’era un tempo dove il mais veniva tostato per conservarlo di più. Oltrepassata l’egemonia dei cerali più poveri, i valligiani hanno trovato il granoturco in pianura e lo hanno portato alla tostatura, in speciali padelle, direttamente all’interno dei mulini. Tre secoli prima si faceva la stessa cosa con la segale. Poi si è perso l’uso e con l’uso è scomparsa anche la tecnica. Così i primi tentativi di riprodurre quei sentori, sono andati incontro ad errori di tempi e temperature. In seguito è arrivato il maestro Ilario Garbani, musicista corale per passione, che, in Valle Osernone, a latere delle macinature già esistenti, attraverso un’associazione e la creazione di un museo, ha rimesso in piedi una macina a pietra dove provare a rimettere in piedi la storia. La soluzione era nella tecnica della signora Nunzia, l’ultima anziana memore del processo: “Nunzia tostava il mais fino a che un terzo circa dei chicchi fosse scoppiato e avesse messo una specie di cresta… poi macinava il tutto. L’ultimo mugnaio attivo a Loco, Remigio Meletta, scartava invece accuratamente i chicchi scoppiati. La macinatura doveva essere molto fine, così da ottenere una farina dalla consistenza paragonabile a un filo di seta. Questo era possibile unicamente con l’impiego di macine con una rigatura particolare e con una perfetta regolazione”. Una farina buona, che sapeva, e sa tutt’oggi, di pop corn, d’infanzia, d’inverno e di privazione.

Di mais in valle non se ne coltiva più e così Ilario deve approvvigionarsi sul Piano di Magadino. Sulle varietà autoctone son state fatte delle prove ma si è sempre tornati al mais Ticino. Costi elevati – è Svizzera mica per caso – e una forma gentile e clandestina di vendita. Insieme al mulino di Loco produce una sorta di “taragna locale”, dove i mais vengono tagliati per la Polenta Onsernone e insieme ad altri artigiani ha provato a mettere in piedi birre, paste, creme, biscotti e gelati (Alberto Marchetti è stato uno dei primi a valorizzarla). Il tutto per un prodotto diverso, che non esiste più, ma che al primo impatto riconoscono tutti. Ricerca, gentilezza, ricordo. Ilario e la sua farina sono una rappresentazione iconica di un tempo sempre uguale…

FARINA BONA

CAVIGLIANO

SVIZZERA

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