Istanbul: tra profumi, sviluppo edilizio, spezie, commercianti e disperazione

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Istanbul è una metropoli a cui ormai è sfuggito totalmente di mano il senso di città. Ha una costruzione caotica, una bellezza disarmante, dei volti scolpiti per sempre in altri volti, dei tassisti che vivono nell’improvvisazione del momento, uno sviluppo culturale che va di pari passo con quello edilizio, delle salite che sono dei passaggi senza tempo verso la povertà e verso la tenerezza, dei canali inquinati, delle viste millenarie, dei venditori di panini con il pesce, dei pisciatori di strada, dei bambini abbarbicati al padre con una sofferenza disumana negli occhi, con quell’empatia senza grado che non è possibile perché non è più civiltà, dei muezzin salmodianti, dei minareti nascosti tra i vicoli dei bazar, dei venditori e dei compratori di qualunque cosa, dei business senza alcun senso, dalle pannocchie ai fazzoletti fino all’acqua scongelata, delle moschee al tramonto, delle ceramiche di Iznik che della mediterraneità han fatto un vessillo, dei sultani visionari e dei sultani sanguinari, pugnali rubati dai film di Dassin e smeraldi più grossi di uno specchio, delle maniere poco cerimoniose, dei massaggiatori da hammam – esperienza strettamente culturale, senza manicheismo, senza codardia ma soprattutto senza estetismo da resort con le palme -, delle forme innaturali di kebab, sempre più grossi e sempre più turistici, degli afrori delle spezie, del tempo da dare al tempo del caffè senza giochi di fondo, la laicità del lahmacun all’aglio, dei borseggiatori, delle file davanti ai musei, la puzza di piedi estenuante dei tappeti della Moschea Blu, la solidarietà religiosa, il regime, la propaganda universitaria, l’occhio vigile del Grande Fratello sempre acceso, dei pescatori improvvisati sul ponte di Galata, dei rimandi innocenti alle mode mitteleuropee, delle stiliste all’avanguardia, l’hipsterismo di Beyoglu, le pasticcerie di Kadikoy e le riproposizioni della baklava in tutte le varianti che l’umano palato può divergere e comprendere, l’assenza di un volto da associare ad un artigiano, il prodotto tipico sopra qualunque perplessità, la bandiera turca sventolante ovunque, il volto di Ataturk che diventa, senza soluzione di continuità, quello di Erdogan, delle spremute d’arancia in mezzo alla strada, la settorialità delle zone del commercio della città, dei lavatoi per i piedi, una comunità che ruota attorno al rituale del kebab, le pennichelle sull’erba in qualunque posizione, in qualunque ora del giorno e in qualunque luogo della città, delle orde di banchetti tramontanti il ramadan, un senso della pasta lievitata, della territorialità e della stagionalità delle verdure, dei meze (i loro antipasti) scenograficamente portati a tavola per la scelta, dei luoghi gourmet, dei buttadentro, una quanto mai lasca voglia di trattare il prezzo, la loro perdita di ritualità e del decadere dei costumi, delle facce preganti, delle facce sudate, delle scarpe rotte e dei macchinoni da puttana infedele, delle sigarette sempre accese, l’incapacità occidentale di rapportarsi ai loro autobus, la mal riposta speranza di trovare salumi e formaggi, in una terra dove la cultura del trasformatore è ad un passo da quella circostanza, riassumibile sotto il volto dell’autarchia, che tutto si porterà via, dei pistacchi sempre e solo salati, il cardamomo bianco con quel balsamico che mette il pino dentro ad un limone, la delicatezza del pepe rosso, la loro miscellanea di spezie per ogni piatto e per ogni contesto, lo zafferano iraniano ritenuto unanimemente superiore a quello locale, il tè nero di Rize e il tè che ri-forma i fiori… Istanbul è tutto questo, molto altro e nulla più. Ci sono i locali del buon formaggio (Antre Gourmet, Cankurtaran Gida e Namli Pastirmaci) che vendono tutto pastorizzato (dal groviera di Kars al Beyaz Peynir, la loro feta), eccezion fatta per delle botte di sale caprino e per il formaggio in Grotta di Divle, pascoli gialli, latte di pecora insaccato nella pelle di capra, atavica sensazione di pecorini siciliani o sardi assolutamente fuori controllo, ci sono i venditori di spezie in blocchi, di spezie senza profumo e di frutta secca da aperitivo, poi c’è lui, Ucuzcular, all’interno del Bazar Egiziano, lì da più di cent’anni. Un po’ commerciante, con la furbizia nel posto giusto, un po’ conoscitore. Abituato ai rompicoglioni e agli stranieri. Ha delle spezie convenzionali, frutta secca normale, delle straordinarie albicocche di Malatya essiccate al sole, dei tè molto profumati, zafferani in escalation, delle miscele di spezie straordinariamente contestuali e poi due gioielli nascosti: il pepe rosso e il cardamomo bianco. Lì cambiano percezioni, modi di pensare la cucina, infauste divisioni tra primo-secondo e dolce. La spezia è l’anima di una gastronomia che ha creato un’unica ed ineccepibile fusione. Quando in Francia le spezie hanno lasciato spazio alle erbe, in Turchia si è continuato con la tradizione. Qui, sono loro che dirimono l’andamento di pranzi, cene e cibo di strada. Esiste il caldo, il balsamico, il freddo, il citrico, il piccante, il dolciastro, il dolce, l’acido e il salato. Ma non come forma derivativa ma come sapore primario, quasi necessario. Ecco le molecole alla base del gusto. Sono sapori senza ricordi perché all’origine. E così, diventando pietra di paragone, sono la radice di quel che resta. Sapore primario. Mettendo in bocca un pepe che non sembra un pepe e un cardamomo che sprigiona Mediterraneo e Alpi, si capiscono le basi di una cucina diversa e fondamentale. Una di quelle quattro o cinque che possono fregiarsi di un’identità senza tempo. Ci sono i venditori di lahmacun, una pizza sottilissima, speziata e agliata (il migliore, Halil Lahmacun), ci sono i gozleme ripieni con il miele, e poi c’è la religione del kebab, con le sue strutture, i suoi piatti, ma soprattutto la sua marinatura e la sua grigliatura, che fan tutta la differenza del mondo. Paradisiaco quello di Karadeniz Pide ve Doner, non da meno quello di Donerci Sahin Usta. Ci sono i dolci, c’è il pistacchio, ci sono le noci e ci sono le mandorle, che vanno a comporre le vetrine di tulumba, lokma, kadaif, gullac e di tutte le declinazione del baklava. Pasta fillo, sciroppo e frutta secca. Ci sono quelli meravigliosi (Baylan Pastanesi e Karakoy Gulluoglu) e quelli da carie coatta al primo morso. Poi ci sono le nocciole… o forse no. Ci sono le nocciole turche in giro per il mondo. Ecco, questo sì. C’è il caffè di Kurukahveci Mehmet Efendi che tosta e vende senza la comodità dell’assaggio o ci sono le caffetterie dove aggirare il tempo e mettersi in tasca un intero pomeriggio nell’attesa di un sapore che, probabilmente, non arriverà mai. Ci sono le taverne dove i meze la fanno da padrone (buona Asmali Cavit) e c’è il futuro (Kantin). Alla fine, ma molto alla fine, ci sono una miriade di luoghi che strizzano l’occhio all’occidente come terra promessa dal berretto sempre in testa e dallo sguardo un po’ ebete. Perché Istanbul ti fa innamorare, ti frega e ti rifà innamorare. È una città di emozioni senza volti o di volti senza turbamento. È tutto lì nella povertà dalle spalle ritte di Fatih e nel progresso di Galatasaray. In mezzo c’è giusto una percezione. Tra un anno, sarà tutto cambiato, eccezion fatta per un’origine che guarda molto più a fondo, verso Gaziantep e verso Izmir, il cuore della gastronomia turca… (to be continued)

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