Turchia – Parte Prima

kapadokya

La Turchia non è Istanbul e non mi ricorda nemmeno istintivamente Istanbul. È un viaggio all’interno di luoghi e culture estremamente differenti. L’islamismo, il cattolicesimo, il bizantinismo e la memoria. Un paese controllato dalla propaganda e dalla voglia di modernità. La ricchezza non è mai bilanciata dalla povertà. I luoghi di culto e di storia tracimano sudore e miseria, il resto è un passaggio con il pullman notturno, un tramonto stupefacente sui camini delle fate o le località sul Mar Egeo/Mediterraneo, dove la sindrome di arretratezza ha portato del futurismo praticato. Il livello medio della percezione di benessere è un mondo inesplorato. La gastronomia ci passa dentro, senza reti di sicurezza. Così può capitare di trovarsi in mezzo a quaranta kilometri ininterrotti di piantagioni di fragole, accorgersene e far accorgere i vicini di casa di sempre, quelli che ormai non hanno l’occhio che per l’Occidente, perché il resto è regresso e inettitudine. Le culture sono un prodotto tipico e una zona di appartenenza. Il tè di Rize, le fragole e l’uva della Cappadocia, le nocciole del Mar Nero, le albicocche di Malatya, il Dondurma di Kahramanmaras, i pistacchi e il baklava di Gaziantep, le mandorle di Datca, lo zafferano di Safranbolu, i formaggi di Kars o di Konya, il pastirma di Kayseri, i fichi di Izmir e i meloni di ovunque. Esistono molte zone di provenienza e pochissimi volti. Una terra di prodotti tipici dalle potenzialità infinite e dalle bellezze senza riguardo e senza conoscenza. Nessun limite e nessuna possibilità. LaTurchia, se esplorata senza essere esplorati dai continui controlli, dalle continue telecamere e dal continuo prendere nota, sarebbe la terra di conquista perfetta della definizione di futuro e di artigiano.

Sulla strada del terrore occidentale che vede l’est turco come una terra di conflitti mai sopiti, di profughi in mezzo al catrame e di estremisti dal tasto pronto, mi sono fatto convincere, in un errore percettivo, a lasciar perdere Gaziantep, l’anima gastronomica di questa terra, rimasta solo nei racconti e in quei piccoli ristoranti dell’Anatolia sud orientale che ancora si trovano in giro. Armenia, Siria, Azerbaijan, Georgia, Iran, Iraq, più il Kurdistan per sovrammercato, sono confini scomodi. Così, rimanendo due passi indietro, si perdono le necessarie precauzioni nella città kurda del Pkk, Diyarbakir, dove per le donne è meglio mettersi abiti larghi, o il guazzabuglio dei rami di pistacchio fuori Gaziantep, dove le incontrollate voci fantozziane continuano a parlare di mezzo milioni di profughi siriani in fuga dalla follia e attirati come mosche dallo sciroppo del baklava, il lago di Van, Malatya con le sue sterminate distese di albicocche bianche, i tempi di Gobeckli Tepe dove è nata la civiltà, le distese infinite di grani antichi e monococco che hanno trasformato l’uomo da cacciatore ad agricoltore e fondatore di città, il Namrut Dagi con le sue follie, il monte Ararat, l’arca, gli armeni e il genocidio. L’Anatolia senza schemi, senza colonizzazione e compresa a difendere confini difficili, dove cantano i muezzin, dove vibrano gli altoparlanti notturni e dove le sirene sono la naturale propaggine della preghiera sterminata e coperta. Così mi ritrovo vicino alla Valle di Ilhara, in un ristorante, uscito dai porti di Genet ma senza porto, chiamato Gaziantep, gestito da un accoltellatore folle e frequentato da volti senza dubbi. I bambini continuano ad attraversare le strade senza protezione e a camminare da soli sul bordo della strada. Tra un vago disinteresse e un’educazione al possesso delle proprie paure.

Senza possibilità di rifiuto, mi ritrovo in bocca le spezie, quel loro modo caldo di intendere la cucina, la carne e il pane. Tutto miscelato, senza particolare nitore e senza una particolare ricerca della divisione. Una miscela ineguagliabile.

La Cappadocia è anche Ziggy’s di Nuray Suzan Yuksel. Urgup è abbarbicato sulle rocce in mezzo a chiese e camini delle fate. L’impressione, prima di dedicarsi alle meze e all’artigianato manifatturiero, è quella del posto più bello di sempre, non di tutti, di sempre, perché sta lì, nei suo anni di turismo ininterrotto, nelle facce abituate al dileggio e alla ricezione metropolitana della pietra come cavernicolo. Eppure, in giro, in mezzo a quelle grotte e in mezzo a quelle deformazioni, non c’è nessuno. Quando entri, superando la puzza di piscio, in una di quelle porte che lasciano davanti il buio, ti ritrovi in una chiesa disegnata tra altari, cupole, colonne e panche per fedeli. Solo, millenario, con la bramosia di capire l’uomo e la sua straordinaria immaginazione, di quel tipo “che non mette tutto a posto” (cit.). Ecco, Nuray è la manualità, in cucina e in bigiotteria, trasferisce sultanici abiti in copri-bottiglia, intreccia collane, batte orecchini ma soprattutto prepara degli antipasti perfettamente agghindati un po’ al tramonto su pietra un po’ alla scarmigliatura della radicale di sinistra con la puzza sotto l’ascella pelosa. Peperoni, limone, cardamomo, melanzane, ceci, salse piccanti ma soprattutto coesioni. Di sapori e di verosimiglianze. Quelle che non lasciano nulla nel detto. Così, arrivato per caso a Kayseri, un amalgama di ortodossia islamica e fiducia nel futuro e nell’economia, dove i bancomat sono molti di più dei kebab, e dove le donne coprono molto più corpo che altrove, mi trovo in mezzo al Bazar a cercare seta pura, chiaramente non trovandola e chiaramente maledicendo quell’unico retaggio disatteso. Il pastirma (di cui Kayseri è fiera propositrice…), l’antenato del pastrami, una bresaola stagionata e aromatizzata con spezie e quintalate d’aglio, oltre ad anti-ossidanti e nitrati vari, tra l’immangiabilità e l’inverecondia, non ferma la mia voglia di gastronomia… così, per caso, trovo il miglior forno di Kayseri sulla mia strada. Altindede Pide Firini, una meraviglia di forni a legna, persone che parlano ma non rispondono, gozleme, pide, baklava, dolci al pistacchio, pani ripieni e filoni familiari da dividere al momento. Una concezione gentile e poco dolce della pasticceria, dove sfoglia e phyllo dominano l’unica concezione stratificata e inscalfibile. La figura del pasticciere non è ancora arrivata, non c’è stata ancora la rivoluzione dai denti bianchi e dalla parlata spigliata, lì rimangono i dolci e i clienti che non vanno disattesi. Il culto della personalità non ha ancora determinato le sorti dell’artigianato. Sono i nostri primi anni ’80, quelli delle torte di complemento, quelli dell’assenza di aggressione, quelli prima della sperimentazione. Molto prima della torta moderna.

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