Un macellaio che esplora il territorio… Salvatore Di Fulco

Monreale. Estesa e dominante. È meglio sapere bene la direzione, altrimenti si è fritti. Il comune sparso costeggia la collina, le frazioni portano giù verso la provincia di Trapani. Senza senso, senza propaggini, senza cartelli. Il centro è il duomo. Il resto è salita e discesa. La conca d’oro porta verso il mare e verso Palermo. Le risultanze storiche sono croste sedimentate che hanno stratificato l’appartenenza: dagli arabi ai cumuli d’immondizia. L’oro zecchino e le torri del cattedrale stridono con le grida dei venditori di zucchina centenaria, con gli ingorghi, i sensi unici e i “quarumari”. Monreale è una città sepolta sopra i suoi fasti, non ha più diramazione, ha solo motivi latenti che aprono squarci d’infinita inquietudine e di potente bellezza. Spose, fioristi e ambulanti fanno la spola tra il centro e il piazzale del duomo. Il sacro e il profano sono categorie vuote, macchine fotografiche, vestiti sgargianti e matrimoni celebrati con i turisti a fare avanti e indietro tra l’altare e le volte adornate. Ecco, quello che rimane. Una contaminazione linguistica senza eguali e una propensione all’affabilità che allarga la famiglia attraverso il braciolone della domenica, fino a comprenderti, azzannarti e metterti a letto dopo il caffè. La gentilezza è di queste lande e grazie a questa arrivo alla Macelleria Di Fulco, anzi alla Pizzicheria Di Fulco. Maiolica caltagironese e la spiegazione più ovvia: il macellaio doveva, per necessità, trasformarsi in un pizzicagnolo dove trovare di tutto, dalle uova dozzinali alla carne di crasto brado, allevato tra ginestre e bunker. E così è rimasto.

Il motivo che mi ha spinto fino a lì è il caciocavallo di Liborio Mangiapane. Superiore, di una classe cristallina. Talmente cristallina da necessitare una domanda. “I vitelli chi glieli macella?”

Eccoci a Salvatore Di Fulco. Nella mia strenua e inconcludente ricerca sul territorio palermitano, durata anni, il suo nome non era mai uscito. Erano usciti venditori di proteine sotto forma di budelli sfilettati oltralpe e importati con la cognizione della facilità alla chiacchiera e del bradipsichismo della clientela di fronte all’istrione con il “capuliatu” in mano.

Salvatore ha preso il furgone, ha guardato il territorio, ha trasformato il formaggio in carne, la proteolisi in frollatura e si è fatto delle domande. Così Modicana e Cinisara hanno cominciato ad avere la loro rifinitura.

Alcuni giorni la bottega lo reclama, altre va sul territorio, a scegliere e a non farsi fregare. Per gli allevatori, che si tramandano da generazioni sguardi e costumi, la bestia è sempre pronta. Ma Salvatore vuole decidere quando è il tempo del finissaggio. Quando il vitello può rientrare in stalla per gli ultimi 30-40 giorni. Il pascolo rende la carne coriacea, complessa e straordinaria. Ci vogliono riposo, assenza di stress e frollatura. Soprattutto per la Modicana. E così la bestia può essere macellata e portata in bottega in mezzena. Quindici giorni in cella refrigerata e l’inizio del “calvario”. Vitellone, manzo e bue grasso non sono nemmeno nominabili. Il siciliano ha la sua cultura e non vuole esserne privato. Nella testardaggine da colore delle carni, quelle di Modicana e di Cinisara si presentano rosso scuro, quasi violacee, con quell’indotto da alimentazione libera così complesso da far passare dall’altro lato. Il consumatore si educa con la comunicazione e la prova. Salvatore lo sa bene e propone diversi tagli, di diverse razze a diverse maturazioni. Così da accontentare e da solleticare.

Il banco è un caleidoscopio di scelte ben definite e di abitudine. Dal quinto quarto, sviluppato nelle accezioni più palermitane, (quarume, trippa, stigghiole, milza), alla pecora, venduta come agnello, per la difficoltà di comprensione. La durezza della carne, bollita, rilascia una splendida sensazione gelatinosa, quasi pulita. Uno straordinario piatto invernale, sofisticato sotto l’etichetta castrato per i retaggi della memoria che il sessantenne si porta ancora dietro, dei periodi in cui la priorità non era la scelta. Ci sono i conigli e ci sono allineati capretti e agnelli, quasi inconfondibili, se non per piccolezze nel rapporto grasso-carne e per la conformazione degli arti, c’è il suino, anche quello recuperato da allevatori locali, ma non ancora ben definito (la ricerca sul nero nebrodense-madonita è un’intenzione d’essere da trasformare in un gusto…) e c’è il vitello in diversi tagli e in differenti lavorazioni. La marezzatura di una costata piccola, che non ha niente di “ingozzo” e di ipertrofia acquosa, rende la giusta morbidezza al sapido. Selvatica, morbida, quasi difficile. Senza una clientela e senza un desiderio. La conoscenza ottunde più che aprire. Questa carne sarebbe l’inizio di una nuova etica meridionale. Ma non ha coraggio. È una proposta da cella, un recupero per l’occasione. Un po’ di “sergiomottismo” aiuterebbe alla causa… Il muscolo è duro, complesso, ha bisogno di un peposo o di uno stracotto. I piatti palermitani ammuttunano, infilzano, scaldano e bruciano. L’esaltazione del tempo è quella dell’umami. Il grasso innerva e determina il gusto.

La carne è un lavoro che Salvatore porta avanti da suo padre. Commerciante di capi bovini in un’epoca in cui il dialogo era una concessione. Bisognava conoscere persone, personaggi e territorio. Andare nelle carnizzerie per proporre era un principio di sfiducia. Ogni contadino si macellava le sue bestie e si faceva i suoi salumi. Le botteghe erano la propaggine delle case. Era tutto molto quotidiano. Andare alle fiere, compra-vendere, fare il prezzo e portare a casa era il primo sentore di un commercio. Così Salvatore e i fratelli hanno imparato a conoscere le bestie e hanno deciso di tentare. Prima con una macelleria a Pioppo, poi con quella in centro a Monreale.

Etica ed estetica. I due passi per la liberazione. Alimentazione, ingrasso e scelta delle razze, da un lato, comunicazione e piacevolezza della bottega, dall’altro. Salvatore manca di sovrastrutture. Ascolta perché è realmente convinto che ci sia qualcosa da ascoltare. È all’inizio di un percorso che guarda al recupero come unica soluzione. Cinisare e Modicane sono l’anima dei nascondigli e dei pascoli. Le vedi ancora dietro il filo spinato, le vedi ancora senza delle prescrizioni nutrizionali per bilanciare la dieta. Salvatore deve prendere quel po’ di negligenza dell’allevatore locale e trasformarla in un prodotto. Senza paragoni e senza sottomissioni.

Poi può continuare a tagliare le costine d’agnello. La succulenza diventa sorpresa e corteggiamento. Fendere, sfilettare, decomporre e squartare diventano grazia, riprendono il bisogno. Rimango secco. Ecco quello che deve fare. Mostrare un sapere che non ha più un ricordo. I giapponesi ne hanno fatto un culto, portano i turisti, fermano le cene per sentire morire un’aragosta. Bisogna tenere gli occhi aperti e avere consapevolezza…

 

MACELLERIA DI FULCO

VIA ALDO MORO 24/26

MONREALE (PA)

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