Val Brembana: prodigiosi formaggi in una valle di serie B

Valli orobiche, valli laterali, valli disinteresate, di case poco suadenti, di verde antropizzato e curve chiuse. Valli che si spingono fino in fondo, prestano alpeggi ai prestigiosi formaggi vicini di casa, cedono nomi agli industriali formaggi vicini di casa, condividono spazi, conoscenze, fatiche e ritmi quotidiani. Valli di lunedì mattina, di rughe che non cedono spesso il passo alla vecchiaia, di gioventù segnate, di presagi bovini e di tradizioni ancestrali. Valli introverse, dove quella parola di troppo è ammissione di debolezza, dove il vicino è muto e il passato un futuro incombente sulla possibilità che tutto rimanga com’è. Valli verde scuro, dove l’approdo turistico è il villino da televendita, la breve fuga dalla città e il maglione davanti al camino per giocare una partita al Mercante in fiera. Se si parla la stessa lingua e si vive in città non troppo lontane, da qui si pesca sempre qualche ora, al massimo un paio di giorni, una sciata appena accennata e la passeggiata della domenica per respirare aria meno ingolfata. Oltre, difficilmente ci si spinge. Ma ragionando per fisicità e apporti gastronomici, qui ce ne sarebbe per far leva su invidie transalpine ed estetiche decadenti. Però è tutto troppo chiaro, normale, ordinario, consueto, a poco prezzo…

Così, qua, è rimasto il tempo di sperimentare la tradizione, di farsi la guerra, aprendosi nuove strade e di mantenere una teoria del formaggio oltremodo dispersa altrove. Si supera San Pellegrino e si trovano gli stracchini a munta calda, che molte volte tralasciano la munta calda, ma che sono ancora la storia del taleggio a pasta cruda. Ci si ricollega alla Valle Imagna, in quei flussi temporali che han visto i bergamini scendere in pianura e trasformarsi in industriali e i giovani ritornare ad occupare l’alpeggio. Si guarda a quella media transumanza che, ormai, di vacche stracche non se ne occupa più, ma che porta il latte verso quel mondo, in mezzo tra l’amaro e l’acido, che le lavature vals(assassine) non prevedono più. Si arriva a Branzi, dove un formaggio della montagna (il Branzi) è stato trasformato in un formaggio da caseificio, quotidiano, semplice, occhiato, e un formaggio (il Formai de Mut che quando è tempo è veramente straordinario), che condivide i pascoli con lo Storico Ribelle (Bitto), è stato talmente deprezzato nel corso degli anni da dover imporre i colori dello scalzo, per non disperdersi nelle celle frigorifere di tutti quei venditori di caci che qui han trovato l’oro da sofisticare: tanti produttori, poca mitologia. Dop o non Dop.

Poi ci sono le valli laterali con le loro paste acide e crude (l’Agrì Valtorta), quotidianità ancestrali da portare fino alla grattuggia dai valtortini, presidiate da un’unica latteria a metà strada tra l’apertura e la chiusura, ci sono gli alpeggi dei Piani dell’Avaro, sopra Cusio, e i caprini lattici dei tanti giovani che da Battista Leidi e Gianni Mosca hanno implementato metodi e precisione. E poi c’è lui, lo Strachitunt del fu Guglielmo Locatelli e degli ora figli che, a Vedeseta, tra una concessione e un dogma, provano a portare avanti la mitologia della doppia pasta erborinata ancora in maniera spontanea.

Tutto questo al di là di tutto e nonostante tutto. L’uomo, l’antropizzazione, la chiusura, gli orridi e i villini scoscesi… eppure c’è ancora “bisogno” di scriverne…

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