Giappone #3: Tokyo

Shinkansen fermo a Toyama per un’ora e mezza. Causa piogge torrenziali nella zona di Nagano. Un evento di una rarità emancipata per cui anche le tv locali mi immortalano nel mio cercare alacremente informazioni e cibo. Arrivo comunque a Tokyo. In quel mostro a nove teste, tutte le certezze vengono a decadere, in primis la pace profonda e la pazienza atavica… ma di avi senza il mio cognome. Shinjuku è quello che tutti vogliamo immortalare, con i suoi grattacieli, le luci, il concerto del Justin Bieber al wasabi sullo schermo per tutta sera, la testa di Godzilla che esce dai palazzi, i grandi magazzini che i nostri sembrano il pizzicagnolo sotto casa, il porno soft di Kabuchiko, i buttadentro, le straordinarie sardine in sashimi di Nakajima, le Chanel vendute come fossero bigiotteria, stazioni della metropolitana senza necessità di uscire per vedere la luce, serialità di qualunque tipo, studenti in preparazione agli esami, folle disumane, folle sovrumane, molto controllo e il primo inferno giapponese: Omoide Yokocho, il regno degli Yakitori. Sudore, caldo, notte, turisti e locali, posti angusti, grigliatori d’eccezione, qualità altalenante e tante tappe. Il fumo è la costante di ogni seduta e di ogni spiedino. Era il modo di sfuggire dei soldati americani, ora è il Golgota estraniante per dimenticarsi di avere una camicia annodata e dei palazzi da contemplare come fossero pinacoteche. Ma Tokyo è anche e sopratutto altro…

È Shibuya e Roppongi, con i loro incroci affollatissimi, le discoteche tamarre e le izakaya che hanno ispirato Tarantino (Gonpachi Nishiazabu); è Harajuku e Akihabara con i fu cosplayer, i negozietti per bimbiminchia assolutamente imperdibili, i palazzi dei manga dalla tecnologia edonistica dove schiere di adoranti cyborg, con gli occhiali e lo sguardo allucinato dalla presenza di esseri umani in carne ed ossa, si muovono in maniera automatica, le cioccolaterie bean to bar (Minimal) dove l’estetica è quello che determina, e le izakaya incredibili (Sakeria), nascoste al secondo piano di palazzi distanti dall’interesse, dove bottiglie di jizake (sakè di piccoli artigiani) e degustazioni perfette sono uno di quei momenti; è Ginza, con i suoi sushi raffinatissimi (Aoki per esempio), le sue botteghe occidentali, gli stessi stronzi che puoi incontrare nell’ottusangolo della moda e quelle perle di pesce freschissimo, grigliato e crudo, sotto i binari della metropolitana, in quel secondo inferno che squalifica tutte le qualificazioni e le determinazioni, attraverso risi impastati con i ricci e prospettive impregnate di sakè; è Chiyoda (o Tokyo) con il suo palazzo imperiale e le pasticcerie delicatissime ma di chiara impronta francese (Aoki, Sugino, Yoroizuka); è Tsukiji con il suo mercato del pesce che, negli orari sbagliati, cioè quelli accessibili, è un reparto aperitivista di folklore e di file illusorie per sushi celestiali (Dai); è il tempio zen di Sengaku-ji, quello dove sono sepolti i 47 ronin (passare prima dal film di Mizoguchi) e in cui, pur non essendoci anima viva, passa la gran parte della storia morale del Giappone, quella del seppuku e della fedeltà senza compromesso; è Yanesen, acronimo di Yanaka, Nezu e Sendagi, un quartiere che è un salto fuori da tutto, dove gli artigiani dei cracker di riso impazzano, le bottegucce hipster pedalano in mezzo ai cimiteri e la tranquillità della passeggiata è un senso di vuoto senza scontrino; è Ueno con i suoi poveri, i suoi parchi, i suoi mercati alle grida e le granite raffinatissime (kakigori) che sono yuzu e un monolite di ghiaccio (Mihashi Ueno); è Asakusa, dove palazzi, templi e palazzi, per chi è già passato da Kyoto, continuano ad essere palazzi, templi e palazzi, e dove perdersi tra le botteghe di Kappabashi Dori (la città degli utensili da cucina) alla ricerca della pietra filosofale gourmet, diventa il più piacevole dei pomeriggi di insensatezza; è l’insieme di depachika (store gastronomici) dei grandi magazzini – da Isetan a Takashimaya – al cui interno ci si potrebbe passare una settimana intera, tra piatti pronti, dolci di tutti i tipi e frutta venduta a prezzi illusori (ma è meglio non pensarci), ma soprattutto è tutto quello che non potrete mai cogliere al di là di quegli sguardi intimi e pudichi interpretati e riluttanti alla concessione.

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