La Turchia è una deformazione di rocce e terra. È l’incredibile travertino di Pamukkale ma è anche il suo sviluppo edilizio delinquenziale, da piscine rubate alle stanze pur di affascinare. Aprire un hotel è affare di tutti i giorni. Il rapporto qualità/prezzo è straordinario. Le città iniziano a puzzare a kilometri di distanza e i bus notturni non lasciano scampo né al sonno né alla morigeratezza. Sveglie nel cuore della notte in questi autogrill formato gigante, con l’altoparlante a scandire i passi delle pisciate in una Las Vegas notturna, che vendono tutto e in qualsiasi colore. Gli Otogar sono avanguardistiche stazioni monolitiche. Come cadute dal cielo, rispetto alla decadenza circostante, tolgono familiarità dando sicurezza e quel po’ di aggressività da venditore di biglietti, accecato dalla folle concorrenza, che porta fuori la modernità. Continue reading Turchia – Parte Seconda
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Turchia – Parte Prima
La Turchia non è Istanbul e non mi ricorda nemmeno istintivamente Istanbul. È un viaggio all’interno di luoghi e culture estremamente differenti. L’islamismo, il cattolicesimo, il bizantinismo e la memoria. Un paese controllato dalla propaganda e dalla voglia di modernità. La ricchezza non è mai bilanciata dalla povertà. I luoghi di culto e di storia tracimano sudore e miseria, il resto è un passaggio con il pullman notturno, un tramonto stupefacente sui camini delle fate o le località sul Mar Egeo/Mediterraneo, dove la sindrome di arretratezza ha portato del futurismo praticato. Il livello medio della percezione di benessere è un mondo inesplorato. La gastronomia ci passa dentro, senza reti di sicurezza. Così può capitare di trovarsi in mezzo a quaranta kilometri ininterrotti di piantagioni di fragole, accorgersene e far accorgere i vicini di casa di sempre, quelli che ormai non hanno l’occhio che per l’Occidente, perché il resto è regresso e inettitudine. Le culture sono un prodotto tipico e una zona di appartenenza. Il tè di Rize, le fragole e l’uva della Cappadocia, le nocciole del Mar Nero, le albicocche di Malatya, il Dondurma di Kahramanmaras, i pistacchi e il baklava di Gaziantep, le mandorle di Datca, lo zafferano di Safranbolu, i formaggi di Kars o di Konya, il pastirma di Kayseri, i fichi di Izmir e i meloni di ovunque. Esistono molte zone di provenienza e pochissimi volti. Una terra di prodotti tipici dalle potenzialità infinite e dalle bellezze senza riguardo e senza conoscenza. Nessun limite e nessuna possibilità. LaTurchia, se esplorata senza essere esplorati dai continui controlli, dalle continue telecamere e dal continuo prendere nota, sarebbe la terra di conquista perfetta della definizione di futuro e di artigiano. Continue reading Turchia – Parte Prima
Istanbul: tra profumi, sviluppo edilizio, spezie, commercianti e disperazione
Istanbul è una metropoli a cui ormai è sfuggito totalmente di mano il senso di città. Ha una costruzione caotica, una bellezza disarmante, dei volti scolpiti per sempre in altri volti, dei tassisti che vivono nell’improvvisazione del momento, uno sviluppo culturale che va di pari passo con quello edilizio, delle salite che sono dei passaggi senza tempo verso la povertà e verso la tenerezza, dei canali inquinati, delle viste millenarie, dei venditori di panini con il pesce, dei pisciatori di strada, dei bambini abbarbicati al padre con una sofferenza disumana negli occhi, con quell’empatia senza grado che non è possibile perché non è più civiltà, dei muezzin salmodianti, dei minareti nascosti tra i vicoli dei bazar, dei venditori e dei compratori di qualunque cosa, dei business senza alcun senso, dalle pannocchie ai fazzoletti fino all’acqua scongelata, delle moschee al tramonto, delle ceramiche di Iznik che della mediterraneità han fatto un vessillo, dei sultani visionari e dei sultani sanguinari, pugnali rubati dai film di Dassin e smeraldi più grossi di uno specchio, delle maniere poco cerimoniose, dei massaggiatori da hammam – esperienza strettamente culturale, senza manicheismo, senza codardia ma soprattutto senza estetismo da resort con le palme -, delle forme innaturali di kebab, sempre più grossi e sempre più turistici, degli afrori delle spezie, del tempo da dare al tempo del caffè senza giochi di fondo, la laicità del lahmacun all’aglio, dei borseggiatori, delle file davanti ai musei, la puzza di piedi estenuante dei tappeti della Moschea Blu, la solidarietà religiosa, il regime, la propaganda universitaria, l’occhio vigile del Grande Fratello sempre acceso, dei pescatori improvvisati sul ponte di Galata, dei rimandi innocenti alle mode mitteleuropee, delle stiliste all’avanguardia, l’hipsterismo di Beyoglu, le pasticcerie di Kadikoy e le riproposizioni della baklava in tutte le varianti che l’umano palato può divergere e comprendere, l’assenza di un volto da associare ad un artigiano, il prodotto tipico sopra qualunque perplessità, la bandiera turca sventolante ovunque, il volto di Ataturk che diventa, senza soluzione di continuità, quello di Erdogan, delle spremute d’arancia in mezzo alla strada, la settorialità delle zone del commercio della città, dei lavatoi per i piedi, una comunità che ruota attorno al rituale del kebab, le pennichelle sull’erba in qualunque posizione, in qualunque ora del giorno e in qualunque luogo della città, delle orde di banchetti tramontanti il ramadan, un senso della pasta lievitata, della territorialità e della stagionalità delle verdure, dei meze (i loro antipasti) scenograficamente portati a tavola per la scelta, dei luoghi gourmet, dei buttadentro, una quanto mai lasca voglia di trattare il prezzo, la loro perdita di ritualità e del decadere dei costumi, delle facce preganti, delle facce sudate, delle scarpe rotte e dei macchinoni da puttana infedele, delle sigarette sempre accese, l’incapacità occidentale di rapportarsi ai loro autobus, la mal riposta speranza di trovare salumi e formaggi, in una terra dove la cultura del trasformatore è ad un passo da quella circostanza, riassumibile sotto il volto dell’autarchia, che tutto si porterà via, dei pistacchi sempre e solo salati, il cardamomo bianco con quel balsamico che mette il pino dentro ad un limone, la delicatezza del pepe rosso, la loro miscellanea di spezie per ogni piatto e per ogni contesto, lo zafferano iraniano ritenuto unanimemente superiore a quello locale, il tè nero di Rize e il tè che ri-forma i fiori… Continue reading Istanbul: tra profumi, sviluppo edilizio, spezie, commercianti e disperazione