Bologna. Pasticceria di Gino Fabbri. Ore 15.40.
Luogo informale, caratterizzato da una clientela particolare. Molto variegata, poco ingessata e poco formale. Una porta che si apre sul laboratorio. Chiedo del maestro, ma lo vedo impegnato. Varie persone gli stringono la mano, gli porgono gli auguri, gli chiedono un consiglio. Lui è la dolcezza che s’invera nel creatore. Ha un sorriso per tutti e un filo di attenzione che si perde, per chiedere scusa a coloro che lo stanno aspettando.
Inizio ad assaggiare. Piccola pasticceria:
– pasta frolla, ricotta e arancia candita: sublime. Siamo nell’empireo della lavorazione della ricotta. La Sicilia sembra lontana anni luce, fuori c’è buio e freddo, eppure, con quel contatto tra arancia e ricotta, esplode in bocca, rilasciando ricordi di natale in spiaggia, venditori ambulanti e rumorosi mercati rionali… e poi c’è la pasta frolla, friabile e suadente, che ti allontana e razionalizza la perfezione.
– bignè con chantilly: pasta choux molto soffice all’interno e croccante all’esterno.
Il contatto tra i denti e la crema è qualcosa di magico… la panna montata non aggredisce la vaniglia che sprigiona sensazioni vicine al deliquio… Imperiale.
– bignè allo zabaione: il primo impatto è stato forte. Molto marsalato. Azzarderei un “troppo”. Chiedo lumi a Gino che conferma. È una scelta. Lo zabaione è così. “Mi ricordo quando ero bambino e mangiavamo questi bomboloni con dentro lo zabaione che sapeva in maniera molto netta di Marsala. Io non ho fatto altro che attualizzare i miei ricordi…”. Epochè.
– pasticcino con un cuore di lampone: all’esterno ha una calotta bianca, morbida, dolce, a forma di igloo, con all’interno l’acidità di un lampone che, stemperando il dolce, ottiene l’effetto di trovare un sapore…
– torta di mele: un dolce che dovrebbe riconciliare con il quotidiano e il già conosciuto. Niente. Strato di mele appassite sopra, strato di mele disidratate (ma non ne ho la certezza…) sotto. In mezzo uno strato di pan di spagna liscio, senza aggiunte, giallo mostarda, compatto e odoroso. E’ come se le mele fungessero da guardiane per non fare uscire nulla, in primis loro stesse. I denti si appoggiano sul frutto e trovano il pan di spagna. Straordinari sentori d’infanzia. “Io la preferisco nettamente ai dolci più complessi, tipo quello con cui ho vinto il premio Giubileo…”.
Intanto la fila si accorcia. Incrocia il mio sguardo e mi dice di aspettare. Finalmente mi presento e iniziamo a parlare. Interessato, mi dice che in quel momento ha i panettoni che gli stanno lievitando e non può concedersi. “Puoi tornare tra un’ora?”. “Certo che posso”.
Esco e ritorno.
Ore 17.50.
Non mi fa attendere un granchè. Ci fa accomodare ad un tavolino e inizia a rispondere, poi a raccontare e infine a rispondere. Intanto io domando, poi ascolto e infine domando.
Lo associo in maniera subitanea a Luigi Biasetto. Ma con meno alterigia. Ha quella pacatezza nei modi, quella sicurezza di linguaggio che esprime alla perfezione la serenità di avere sempre una soluzione all’errore.
“Desiderio di passato”, ecco come esprimerei la sua pasticceria.
Rinnovandosi, e innovando, non può che mantenere intatto e puro il legame col suo passato, quello fatto di piccoli paesi, di dolci tradizionali, di domeniche sul sagrato, di assenza di maestri e di naturalità, di gesti e di ingredienti. E così è Gino. Ha sfrondato, abbandonando per strada, quello che era di troppo (la “pasticceria da giorno di festa”, preferendogli un’arte alla portata di quotidianità, di pranzi di lavoro, di gente presa dagli impegni che ha la possibilità di permettersi un piccolo lusso che ha il volto del lunedì pomeriggio e non quello della domenica mattina. “Perchè chi ha tempo da perdere, non dà valore al tempo e quindi non da valore all’impiego del tempo”) e tenendo i suoi ricordi più sinceri, quelli fatti di bomboloni, zuppe inglesi, pantaloni alla zuava, tavole imbandite e gioia per gli occhi.
Il presente e le innovazioni tecnologiche hanno regalato la pace al suo senso di giustizia. Lui ha bisogno di certificazioni continue sui prodotti che utilizza, precise e di lunga durata. Ci devono essere schede informative allegate, che dimostrino la genuinità del prodotto. “Prima della bontà, ci deve essere sempre la sicurezza”. Nessun colpo di testa. “Il genio non può prescindere dalla fattura” (autocit.).
Poi torna a raccontare di quello che lo diverte maggiormente. Dei lieviti. Dei suoi maestri (due suoi contemporanei): Iginio Massari e Achille Zoia. Di come i giovani preferiscano momenti più creativi, come può essere una mousse, non capendo l’assoluta poesia nascosta dietro il lievito e la sua legatura: tempo e imprevedibilità. Nulla è mai come il giorno prima e nemmeno come l’infornata precedente. Tutto è diverso. Cambiando le condizioni, cambia tutto (come quella volta che sostituendo il miele di arancia a quello di acacia, il panettone smise di essere un panettone… notti insonni e nessuna spiegazione). Il lievito è uno psicotico schizofrenico. Un giorno ha la gonna rossa a pois e i tacchi a spillo, quello dopo la camicia da boscaiolo e il camion carico di tronchi pronto a partire. Ecco il genio senza fattura…
– Panettone: non troppo umido, non troppo candito, uvette regolari, poche bolle d’aria, colore giallo paglierino, quasi flebile, odore persistente di bacca di vaniglia, sapore perfettamente bilanciato tra le varie componenti. Vicino agli occhi, la vaniglia si disperde sulla superficie come fosse polvere di pepe, creando un effetto ottico di fanciullesca poetica.
…Ecco Gino Fabbri… a cui ho lasciato parte della mia fantasia, per colpa di una torta (che non ho assaggiato) di una bellezza stordente. Ingredienti: crema di mascarpone, marron glacè, pasta breton e cioccolato… Un’opera di lisergica immaginazione!
GINO FABBRI PASTICCERE
VIA CADRIANO 27/2
BOLOGNA (BO)