Wakayama è una città che non aspetta visitatori e così ripartiamo direzione Koya-San, uno dei luoghi più sacri del Giappone, centro monastico per lo studio del Buddhismo e sede dello Shingon. Qui Kobo Daishi, dalla Cina (stranamente…), mise la pietra e l’esoterismo, edificandoci un luogo unico, complessi di templi pittoreschi, un cimitero con lapidi senza soluzione di continuità, cedri enormi, luoghi spettrali, torii vermiglio, altari in mezzo ai boschi e una proporzione che, al di là di un turismo ordinato, comincia col sole e termina alle 17,30 all’interno di un monastero dove si cena, si dorme e si cerimonia. Qui si mangia la shojin ryori, una cucina vegetariana (da cui sono esclusi aglio, cipolla e spezie perché troppo coprenti) essenziale ma non povera. Goma-dofu (tofu di sesamo), alghe, verdure e aromatizzazioni leggere così che il pensiero possa vagare e il corpo dormire…
Sfortunatamente mi risveglio e prendo i soliti tre treni giornalieri per arrivare ad Osaka. Una città esausta, dove la rappresentazione diventa più libera e il popolo ha uno sguardo meno compassato. Questa è la città dei Boredoms e degli Acid Mothers Temple, qui ci sono gli artisti per la strada, qualche cartaccia per terra, qualche schiamazzo e personaggi più ambigui. Questa è la cucina e la fucina del Paese, dove è tutto più caldo, più reale, dove l’aria di mare si sente sulla pelle, le ambientazioni notturne da Blade Runner a Dotombori sono disperse nel frenetico folcloristico e i ristorantini, che hanno ispirato gli anime dei nostri primi rossori, sono ancora lì, nei vicoli, come luogo dove l’infanzia un giorno potrebbe anche ritornare.
Al di là degli okonomyaki (ciò che vuoi alla griglia), dove il topping spazia dal fantasioso al fantasioso e il minimalismo locale va a farsi benedire, Osaka è un’esplosione di cibo di strada: dal mercato, Kuromon Ichiba, dove mangiare straordinari granchi, verdure speziate e marinate, dolci glutinosi, sospirare il pesce palla (fuqu), che nella pericolosità (sono pochi i cuochi che lo possono preparare) e nel suo veleno dilazionato in bocca ha creato la sua mitologia e nell’assenza di sapore ha confermato la sua banalità, ai baracchini che preparano i takoyaki, polpo racchiuso in pastella e cotto in stampi sferici e ricoperti da dolciastro e katsuobushi, fino ai kushikatsu (amati da Ferran Adrià quelli di Daruma), spiedini di pesce, formaggio, carne o verdura impanati e fritti.
E così quando tutto è finito, io sto già pensando al nord del Paese, al prossimo viaggio, quello che mi porterà in mezzo agli Ainu e ai pescatori selvaggi, quello che non si può non fare. Perché una volta basta solo a frenare il desiderio, a percepire come la realtà sia molto più vivida della tua immaginazione più satura… e il ritorno a casa è come se fosse una prima volta…