Gaiole. In quelle vallate che sono la storia del Chianti. Pievi, diocesi, Fiesole, Arezzo, provincia di Siena o di Firenze sono sovrastrutture burocratiche ad un’imposizione geografica. Recitavano i fuggitivi della Grande Illusione di Renoir, alla fine del film, di frontiera alla Svizzera: “Ma sei sicuro che sia la Svizzera laggiù di fronte?” – “Che discorsi… Più che sicuro!”- ” A me sembra tutto uguale, qui” – “Eh, che cosa vuoi… Le frontiere non si vedono mica. Sono un’invenzione dell’uomo: la natura se ne fotte!”.
E qui la natura se n’è fottuta realmente. Perchè la bellezza non è proprietà di nessuno, come il fantomatico ruscello-fiume eponimo, che non si sa se esista o se sia esisito. Le colline diventano orizzonti. I vigneti, boschi. Così si potrebbe (in)definire una quantità di tornanti, di salite e di piccoli castelli posti a difesa. Guelfi fiorentini e ghibellini senesi, popolazioni rurali e battaglie per una libertà dimenticata, ma con ancora i lustrini della leggenda e delle serate in costume tipico.
All’interno di Gaiole, in una piccola enclave cittadina, si muove, lavora, crea e almanacca la famiglia Chini. Macellai dalla notte dei tempi. 1682, primo allevamento di maiali allo stato semibrado. 1996 ripristino, dopo anni bui, da parte di Lorenzo, di un allevamento di cinti senesi. I primi macellai a produrre un prosciutto crudo in purezza. Gli stessi che producevano e stagionavano per Paolo Parisi. Quelli che erano in tre e ora son in due mezzo. Gli stessi che hanno un padre, Vincenzo, e un figlio, Lorenzo, emblemi della reticenza ad una classificazione. Sia da un lato che dall’altro. Ostici, poetici, ermetici e incostanti. Ognuno alla propria maniera e ognuno nelle proprie antitesi…
Lorenzo mi accoglie con una dimenticanza e con un invito ad andare a quel paese. Il sarcasmo non è una maniera di corredo, ma la più intima corrosione della realtà. Uno sguardo coevo con il passare del tempo, con le curve sulla schiena, con i pettorali tenuti larghi e con la sciatica/ernia dovuta ai 15 km (o più) fatti su sterrata per curare, in mezzo ai boschi, quell’allevamento voluto e confinato.
La famiglia Chini, incastonato nello stemma di famiglia, ha il muso di un porco. Leggenda transeunte, nemesi laconica o effetto Pigmalione? Oltre trecento anni di storie di macellai. Padri, figli, nonni, trisavoli, la sapienza caleidoscopica arriva per poi ripartire, con qualche rara eccezione e con qualche impaurito spaccamontagne, o altrimenti zio, che molla per poi ritornare assiso al volere altrui.
Quelli che resistono sono Vincenzo, che lavorerebbe anche di notte se potesse, e Lorenzo, quell’indefinibile di cui sopra.
Vincenzo tiene il coltello in mano a guisa di biberon, penna, tastiera, fede e probabilmente breviario. Ha una storia compassata, in mezzo alle colline e una moglie “che è la miglior donna del mondo”. Qui allenta la presa del coltello e si lascia andare agli occhi lucidi: “eravamo appoggiati ad un cipresso. La violenza del bacio lo ha stecchito. Da quel momento non fiorisce più. È come fulminato…”. Si ritira dallo slancio ideale e si rigetta a tagliare braciole. Quelle fresche di cinta senese, con il suo grasso. Quelle che Lorenzo dissimula nella differenza tra saturo e insaturo e che riporta alla normalità, in un afflato di demistificazione di tutte quelle cose che si leggono in giro. Chimica, fisica, struttura del nero italiano sono segmenti sfocati di un principio fondamentale: l’alimentazione della bestia. Lì c’è lo sforzo dell’allevatore che si spacca la schiena, con l’attenzione rivolta alla Cura, all’unica maniera sincera di rapportarsi con gli altri, attraverso il viso altero del sarcasmo come modo di combattere quella finzione che ogni giorno, su troppi visi, raschia il perbenismo.
Strano però è strano… ancorchè non riesca a non ricamarci addosso. Soprattutto negli assaggi e nei saluti. Dall’abbandono delle speranze al nome, dai ricordi alle telefonate, fino agli abbracci con palpatina di fronte al puritanesimo delle ex modelle americane e dei loro concittadini. Oppure negli assaggi pomeridiani, che è ovvio non potessi rifiutare: la leggerezza dello spuntino inverata in un fegatello e nella trippa al sugo di carne. Che dire? Due espressioni di desiderio, nel grigiore della mancanza di appetito. Eccezionali… la trippa poi… da non riprendersi. E infatti, la cena l’ho fatta a sorsi d’acqua…
Anche perchè, una volta entrato in quella sintonia che Lorenzo, da buon rapsodo, regala e toglie nel disinteresse verso la convenzione, mi trovo gettato nella stanza (una vera e propria cantina a latere di negozi e magazzini…) della stagionatura dei soli prosciutti. Quelli per cui son famosi in tutto il mondo, quelli per cui anche il divin Cecchini, impegnato manco fosse un agente di borsa, trova il tempo per sgrammaticare quattro righe via mail, definendoli i migliori mai assaggiati. Large withe e cinte, pezzature diverse, conce e sugne differenti, zampe e strutture assolutamente antitetiche. Unto e umido, odori controbilanciati, cadaveri penzolanti, assolutezza e solitudine. Sogno e incubo insieme… e il prosciutto di Cinta è qualcosa che rimarrà per sempre in quegli occhi sbarrati e in quel lecca-lecca tolto da una madre troppo efficiente… grasso, carne, stagionatura e salatura, c’è di tutto per dar ragione al Cecchini… anche se le orme, vicino alla vetta, son sempre di più… fortunatamente…
La mattina mi reincontro con Vincenzo. Più tranquillo, meno inficiato dagli sguardi parietali e parentali. Arista stagionata, rara, meno dolce del prosciutto ma con quella masticabilità protratta che avanza…, salame di cinta (empireo), braciole di cinta, già citate e sempre più icastiche, tagli di chianine/limousine (perchè qui si è smesso la selezione della razza e forse si è iniziato a guardare al mercato…)
e la sua favella che parte da lontano, ti chiede di non abbandonarla e ti congeda con “scrivi quello che hai visto, non inventarti storie…”. Ecco una famiglia con la comunicazione rarefatta e frammentaria, con silenzi dispersivi e con vette memorabili…
MACELLERIA CHINI
VIA ROMA 2
GAIOLE IN CHIANTI (SI)