Casa e bottega di un macellaio piemontese… Gian Paolo Guastavigna

guastavigna

Bergamasco. Provincia di Alessandria. A ridosso delle colline del Monferrato, in pianura ma per caso, con quella vista innevata che spazia su tutto quanto è buio e dimenticanza. Un luogo come questo è fatto di ritiro, di piccole abitudini e di ancor più piccole assuefazioni. C’è un castello, c’è un centro con della storicità rialzata, ci sono delle curve che confondono e dei limiti assolutamente indefiniti che non portano da nessuna parte. Un territorio che va cercato, che non arriva per caso, che non lo trovi davanti per grazia divina, e più si nasconde più ci sarà qualcuno che continuerà a perlustrarlo. Ottocento anime per una campagna poco laccata, remota, veramente rilassante. Quattro giovani escono ed entrano da una chiesa che diventa il perno di una confidenza molto al di qua delle mode e molto più legata ai risparmi. Perché qui la globalizzazione è un filo spuntata, meno pervicace e più decadente. Dopo qualche minuto decido per la mia meta. Una minuscola bottega nell’angolo di una minuscola piazza, senza passaggio e senza passeggio, segna la vista per qualsiasi tradizione. Il bovino piemontese è un gonfalone che determina la transizione. Non si passa oltre, ci si ferma lì, in questi luoghi che dell’allevamento/macelleria ne ha sempre fatto un culto. Non si scappa, non si può, il veganismo dilagante qui continua a rimanere inter-detto perché persone come Gian Paolo Guastavigna han sempre parlato un verbo incontrovertibile.

Moglie e figlia sono i suoi bracci armati in bottega, le venditrici da cliente affezionato. Il resto è una casa di corte dove il cortile attornia tutti i lati della sua professione. Un macello dove lavorare i suoi due bovini a settimana, le celle di frollatura, una piccola stalla dove alleva sei-otto bestie per portare i castrati a buoi e per fare il finissaggio di qualche bestia comprata già vecchia, una cella per conservare i tartufi, l’appartamento, i suoi cani e la bottega. Tutto a portata di ciabatta.

La passione per la Piemontese è straripante. Fiere, mostre, allevamenti, allevatori, stalle, macellazione, etica, gestione estetica, vendita. Tempo lavorativo e tempo libero. Portare le bestie oltre una tonnellata, mostrarle a Moncalvo o a Carrù, gestire le aste, guardare la fisiognomica, il culo, le gambe, l’ipertrofia muscolare, chiamare le bestie per nome, tenerle sì legate ma in una nuvola di paglia, sono tutto quello che lo comprende e per cui comprende. Viscerale come l’andare per tartufi nelle sue zone protette. Un uomo barocco estremamente legato ad un territorio che ha sempre parlato di questo, che ha sempre fatto questo e che continuerà a non poter prescindere dalla sua terra rivoltata, dalle sue bestie da ingrasso e da quella logica che dalla Piemontese parte e che alla Piemontese finisce. Perché, al di là di questo territorio e di qualche macellaio, queste bestie non hanno mai avuto il riconoscimento del taglio americano, dello sguardo adorante e della poesia d’oltreoceano. Sono carni locali, di bestie locali, di allevatori locali che l’accento, l’umore, lo scetticismo visionario e l’uggia non han mai deciso di svenderlo. Al di qua e al di là dell’etica. Lì in mezzo si trova di tutto. A volte si scommette e si chiudono gli occhi, a volte trovi l’apice della svenevolezza carnivora. Poi arrivano i tagli, arriva il piatto e arriva la necessità contemporanea del palato con cui masticare il tutto… così si chiudono i discorsi.

Dalla battuta al coltello al controfiletto fino al cappello del prete, la carne di Gian Paolo è straordinaria. Dal castrato alla manzetta fino al bue grasso (che troppe volte è bue magro!!!), la frollatura parte dai dieci giorni e si dipana secondo la necessità della bestia, la resa è incredibile (oltre il 70%), l’acqua persa è bassissima, il taglio è compatto, la marezzatura normalmente poco incisiva, la morbidezza fuori dal mondo, un sogno di brasati, basse cotture, crudi e sigillature. È tutto in quel piccolo banco che determina ancora turisti ma soprattutto locali (e questa cosa è molto oltre la religione) ad andare lì e ad affidarsi. Con quelle vecchiette da monoporzione che si raccomandano alla figlia di riproporle lo stesso taglio che le aveva dato la madre. Lasciando all’anzianità l’egemonia valoriale. Come è giusto che sia.

La macelleria Guastavigna è un posto familiare, di quella familiarità che tutti si augurano di trovare il martedì pomeriggio sulla propria strada, dopo aver respirato e dopo aver deciso di affidarsi. Perché la fede è una pulsione che ha trasformato la pieve nel borgo, il borgo nel paese e il paese nella città, che ha dato riparo alla settimana e a tutto quello che concerne l’abitudine e la quotidianità. Ed un luogo come questo è distante dal sagrato meno di venti passi. Fisici, morali, elettivi e coercitivi. Il tempo di respirare quell’aria che ancora punge le narici e arriva al godimento…

 

MACELLERIA GUASTAVIGNA

PIAZZA BARBERIS 18

BERGAMASCO (AL)

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