Contro il luogo comune: il cavallo e il sorriso. Giorgio e Vittorio Pellegrini

Milano. Quasi in centro. Via pedonale, fu passaggio di tram, carovane puntanti ad est e urbanizzazione, ora è teatro di passeggiate domenicali, eventi macello-mondani e silente oasi dietro un traffico perenne. Lì, tra rosso e oro, spunta una piccola bottega fuori dagli schemi. Non dei colori, non degli addobbi e nemmeno dei prodotti di corredo. Nell’insegna “Macelleria Equina”, si prova a connotare un posto per certi versi sorprendente. L’antichità, gli specchi, i manovali della carne con voce adattata alla noia e sguardo catatonico, quello che ti aspetti in una bottega che rappresenta la storia di Milano, delle sue collane in perle, delle sue pellicce e di un’alimentazione talmente altra da risultare un po’ snob e un po’ agè, ti abbandona sulla soglia o prima sulla vetrina… perchè senti una voce all’interno che saluta un viandante, fuori, che non può fare altro che avvicinarsi e guardare, annusare e provare a riguardare. “La moglie mi ha detto… vabbè… magari due involtini li prendo”.
Entro, aspetto e intanto mi schermisco di fronte alla cordialità. Per il milanese assuefatto, la croce dei vampiri. Un sorriso cordiale, senza alterazioni e senza sovrastrutture, quello della moglie e della madre, lo stesso che fa capolino tra le sei chiacchiere scambiate con Giorgio e Vittorio, tra un sottovuoto e l’altro, cercando di cogliere una storia che già conosce ma alla quale si scusa, sinceramente interessata, di non poter ri-partecipare. E se questo è il trait d’union tra la carne e il cliente, la metaforica metà strada è già in vista del traguardo. All’improvviso, però, arriva Giorgio e il mio silenzio diviene più consapevole.
A lui si aggiunge, da subito, suo padre Vittorio, la storia e la passione di quel posto.
Si intervallano a vicenda, nel racconto, rapsodico e inframmezzato da immagini e ricordi, ma soprattutto da concordanza. La carne di cavallo è giunta per caso. Vittorio lasciò il Veneto a 18 anni alla ricerca di un impiego. Arrivato a Milano, lo trovò all’interno di una macelleria. Ma non chiese. Si accorse, solo dopo alcuni assaggi, che quello che aveva in bocca non assomigliava al manzo mangiato fino ad allora. Eppure c’era già un decreto regio che vietava di vendere carne bovina insieme a quella equina (il motivo era da ricercare nelle sostituzioni coatte che molti macellai facevano, abbindolando il povero cliente). Vittorio chiede ed effettivamente quello che aveva mangiato, fino ad allora, era cavallo. Il garzone nemmeno maggiorenne si adegua. Un lavoro è un lavoro. Passano cinque-sei anni e un lavoro diventa il lavoro. Decide di aprire una piccola bottega in via Spallanzani e da lì la storia è partita e non si è ancora conclusa. Conosce la moglie in una balera e mette al mondo due figli. Uno Giorgio lo affianca e lo succede. Ma lui, maglione e camicia impeccabile (mi ricorda quell’anziano che, talmente educato alla giacca e cravatta, non poteva fare a meno di tenerle addosso anche durante la zappatura dell’orto) rimane ancora lì, dà una mano e soprattutto mostra presenza alla signora refrattaria al cambiamento, alle mode e alla giovani facce sbarbate. La senilità è un moto di fiducia.
Vittorio non invade, non mette i bastoni tra le ruote (così come suo padre aveva fatto con lui) e cerca l’accordo con la disinvoltura del figlio al rinnovamento e all’idea. A volte geniale, come quella rubata da una risto-macelleria di New York dove continuavano la frollatura delle carni all’interno di una cella, con scenografiche (il tipo di sale è una scelta caleidoscopica e suadente… quanto di più riuscito) pareti di mattone di sale himalayano, che danno sapidità e sterilizzano l’aria all’interno. Utile esclusivamente per il manzo (aggiunta recente per richieste diversificate), perchè il cavallo ha bisogno di pochi giorni per intenerirsi e sdilinquirsi.
La carne equina, dopo aver battuto i luoghi comuni, i cartoni animati e l’immaginario domestico, mette il macellaio di fronte ad una grande difficoltà: la pellicina, che nel manzo può essere lasciata a contatto con la polpa, nel cavallo deve essere eliminata. Una volta era qualcosa di manuale, leggendario e madido di sudore, adesso, fortunatamente, c’è una macchina che permette questo lavoro in automatico. Ma è come se Vittorio non possa  smettere di rendere presente quelle eternità passate a cercare un pensiero per distrarsi.
Quando era giovane, la carne arrivava quasi tutta dalla Danimarca, poi sono cambiati i tempi. Adesso a far la voce da padrone è la Polonia. In Italia è poco conveniente e sono pochi quelli che destinano i cavalli all’ingrasso. Ma l’attenzione verso la filiera non puoi mai venir meno. Azienda Giorgi, nel lecchese, alimentazione controllata e arrivo di mezzene in macelleria. La lavorazione, invece, è frutto delle loro mani e della loro fantasia.

– Da queste sono nate le loro bresaole. Sottofesa, fesa e magatello, lavorate come non si fa più, insaccate manualmente nella calza, si presentano in dimensioni varie e in stagionature differenti… A Giorgio basta toccarle per capire il livello di prodotto. E questo non si fa attendere. Vengono affinate in una stanza a temperatura controllata, in un numero veramente contenuto e con una pentola ripiena di salamoia, conciata con vino bianco, pepe, aglio e sale, che emana uno straordinario odore di tavola atavica, una di quelle che, ancorchè mai esistita, è sempre stata un luogo prediletto dove rifuggere i compromessi del cibo veloce. Qui dentro, la bresaola (con cui Vittorio si intrattiene ogni tanto con dialoghi e moniti) diventa qualcosa di leggendario: morbida e controllata, al gusto sinuoso di un taglio di capelli femminile, che trancia con il costume del giorno prima e con l’abitudine dei giorni che verranno, che richiama la crisi (o la criniera), discernendo e differenziandosi dal già conosciuto. Fenomenale. 

   – Ad un certo punto, Giorgio prende un pezzo di diaframma, me lo mostra e lo mette in forno (lo stesso che usa per cucinare per i clienti del giovedì a mezzogiorno e per i fortunati della cena infrasettimanale, sul banco del retrobottega con i ganci delle mezzene a fare da attaccapanni, le volte in cotto e i soffitti in legno a corredare un menù concordato e voluttuoso) e me lo propone in tre versioni: in solitudine, con olio e sale e con una mistura di olio e aceto balsamico. “Questi (diaframma e reale) sono i tagli del macellaio. I meno cari ma i più buoni” (anche qui la gente continua a prediligere filetto e costata…). Al palato rimane un retrolfatto sanguigno e l’esperienza di una carne molto più ricca di ferro (oltre che più povera di grassi) che, superata l’iniziale confusione, rilascia una morbidezza differente. Ho provato a rovinarla, nella solitudine di un fornello acceso male, ma non ce l’ho fatta: si è impercettibilmente asciugata e nulla più.

Tra salami, arrosti, bracioline pugliesi rivoluzionate, salsicce (con pochissima pancetta di maiale) e i più comuni tagli di carne, inizio a percepire una differenza: la clientela, così rugosa in altre storiche  boutique milanesi, si presenta più giovane e interessata.
Fa domande e aspetta le risposte. Lo faccio notare a Giorgio che ne sottolinea la normalità e continua con quei suoi occhi fissi sul suo lavoro e sulla sua passione, sul rispetto verso i macellai suoi colleghi (che non dimentica mai nei ringraziamenti finali) e sul racconto intervallato da umiltà e ascolto, lo stesso che mette nella ricerca di un consiglio e di una novità. Vittorio lo guarda ma si nasconde. La fierezza è quell’intimità così restia a manifestarsi…

MACELLERIA PELLEGRINI
VIA SPALLANZANI, 6
MILANO (MI)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *