Del Monococco e dei suoi tortelli… Leonardo Salvini

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Gottolengo. In quella pianura padana che non ha più una tessitura, dove le industrie hanno lasciato ai contadini l’illusione di credersi padroni, la pausa pranzo è un tempo infinito che non ha altri sbocchi se non un saloon. La troppa fame mi getta in un bar da ultimo stadio prima della bottiglia. Il testo, il panino, il suo prosciutto e la sua barista sono di una rilevanza letteraria ma infima. Eccezione lirica: cinque sudati minuti in cui ho visto Belle Gunness, trasformatasi in vedova nera della bassa bresciana, portare a termine l’agognato avvelenamento dell’iconoclasta crapulone. Sfortunatamente riavutomi, mi sono trovato immerso in una disquisizione tra medi intellettuali dal culo basso, dall’alito fetido e dall’inflessione catatonica, che ha ammazzato nell’ordine, il nuovo governo, il vecchio governo, i partigiani, Balotelli, la madre di Balotelli, il carrozziere di un paese vicino, le fighe di legno e le discoteche che non sono più quelle di una volta. Sentendomi a casa, sono riuscito a digerire e a riavere i contadini sotto forma di contadini.

Qui, in quest’angolo di mondo, la pianura è priva di un belletto. E così gli artigiani non hanno distrazioni e tempi morti. Leonardo Salvini è l’immagine da dizionario di questi luoghi.

Terre e tradizioni padane, un nome dal basso coinvolgimento emotivo, per un progetto a metà strada tra artigianato e serialità, dalle implicazioni talmente chiare da togliere subito la nebulosità della poesia. Ex soci, soci di capitale, dipendenti, macchinari all’avanguardia, traduzione dell’industrializzazione in umanità e sostenibilità. Leonardo è un ex tecnico, aggiusta-tutto, che, oltre vent’anni fa, ha deciso, insieme ad un’evanescente compagnia adesso impegnata in altre faccende, di adattare i macchinari della pasta ad una produzione che avesse il proprio cardine nella manualità del gesto. La ripetibilità iniziale, con uno sguardo sporcato dalla fabbrica, per una strana coincidenza (un impasto di fretta per un cliente con fretta, impastato a mano e riadattato alla bell’e meglio), ha innescato la sua rivoluzione. La concorrenza non doveva più essere l’industria. La vendita del fresco in una piccola bottega si sarebbe traslitterata in un’atmosfera modificata e in una gestione consapevole della conservazione.

Così sono arrivati i dipendenti, i ristoranti, le botteghe gastronomiche e la grande distribuzione. Francia, America, Belgio e Inghilterra hanno una visione popolare dell’esclusività. E così Leonardo ha deciso per una pastorizzazione sotto i settanta gradi (quaranta giorni di shelf-life…) su tutti i prodotti (carne, verdure e formaggi…) che vanno in Europa e verso la Gdo, e la surgelazione del tortello per il prodotto che va oltre oceano. Linee produttive composite ed articolate su diversi piani, trafile in bronzo, doppie impastatrici foraggiate con la stessa quantità e tipologia di farina e di uova, le prime con estrazione per estrusione (pressione), adatte ai desideri al di sotto del Po, dove le uova colorano di più e dove la struttura rimane più grezza, le seconde a laminazione, adatte alla pianura padana con un prodotto più tenue ma molto più raffinato. Qui termina l’industrialità del profitto. Il resto è etica applicata al guadagno.

Materie prime che la maggior parte delle casalinghe dalla mano appiccicaticcia si sognano, Bagoss d’alpeggio, Silter di Andrea Bezzi, verdure locali, confetture Andrini, farine Grassi (senza sapore ma senza brache calate), Grana Padano Tomasoni; ripieni impastati ancora in piccole quantità appena cucinate; linea kasher con divisione delle lavorazioni, una ricerca ossessiva verso la territorialità; a breve, la sperimentazione di un nuovo prodotto con un grano tenero dimenticato della bassa bresciana e un recupero del monococco Shebar, insieme all’Antica terra di Cigole.

Riccardo Geminati, presidente dell’associazione, è un vulcano in piena, un lavoratore sociale con il vezzo del recupero delle razze dimenticate. Macinano a pietra all’interno dell’azienda di Leonardo con un mulino che “integralizza” e buratta. Il prodotto è il più antico grano non ibridato di cui abbiamo memoria. Il Dna del tascapane di Otzi è lo stesso dei campi di oggi. È una velleità che risponde ad una linea di prodotto di nicchia, per piccole lavorazioni e, soprattutto, senza una trasformazione tipica da cui dipendere. Il paragone con il grano saraceno valtellinese è fuori luogo e fuori tempo. Qui non c’è necessità della Cina, si riesce, senza glutine, ma con potenzialità proteica, a tirare fuori un tortello veramente raffinato e uno spaghetto (prima lavorato in Abruzzo insieme a Giuseppe Li Rosi, il “pallonar-semiologo” dei grani antichi siciliani, adesso fuori produzione, in un futuro molto prossimo rimesso a punto in un capannone attiguo dedicato alla pasta secca…) perfettamente inamidato ma soprattutto con un sapore.

Il prodotto ha una qualità disgiunta dall’idea talebana dell’artigianato e dell’impasto fatto coi piedi, ballando la pizzica. È buono al di là di tutto. I tortelli, le caramelle e i ravioli sono un prodotto conservabile, perfettamente bilanciato, senza insaporitori e senza il momento del formidabile. È un’esperienza artigianale che ha deciso di sostenersi da sé. Leonardo è una persona serafica, ha quella rilassatezza precisa che non dà mai nulla per scontato, soprattutto la critica. Produce, trasforma e vende. Le invidie nel taschino e un rispetto primigenio verso la “sua” terra. Che non sarà bella, che non avrà fascino, che non sarà esotica. Ma è quella che è. Proficua…

 

TRADIZIONI PADANE

VIA BRESCIA 50

GOTTOLENGO (BS)

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