Vignale Monferrato è un paese del passato, di tempi in cui Milano era un’anti-fuga raggiungibile e le colline locali un approdo quasi necessario. La bellezza è una bellezza intatta, dove gli infernot scavati nella pietra da Cantoni rappresentavano, rappresentano e rappresenteranno una zona più di mille parole. Qui si portano i turisti per interrarli tra muffe e bottiglie di vino, e li si scoprono lasciandoli in mezzo a vitigni, girasoli e noccioli. E così questo sarà sempre un luogo borghese dove trasformare la settimana in una lunga preparazione della domenica, dove sfoggiare la tenuta da caccia o la macchina con la capote. Un’avvenenza da danzatori estivi e da partite di tamburello, dove la diversità è un modus operandi che ha trasformato il contadino in vignaiolo e la naturalità dei vini in nomenclature successive dove Barbera, Rubino e Grignolino sono ancora lì fermi nelle loro bottiglie, nei loro enologi e sotto le proprie coperte. Così il Monferrato è un bel viaggio nel tempo. Estetico e statico.
E chi meglio di un veronelliano di ferro potrebbe farmi da guida? E così l’enologia dei tempi dei Giacomo Bologna, dei De Bartoli, dei Gaja e degli Antinori viene rimessa in circolo in un’armonizzazione del presente. Roberto Santopietro ha portato in Monferrato la sua valigia dei trucchi, quella dei ricordi e quella delle ricette e ha girato intorno al vino, posizionandosi dalle parti del necessario. Ha creato un contesto “invasettato” attorno ad una storia e ad una cultura. Di terra e di territorio.
Ha cominciato a trasformare i prodotti dei suoi terreni, a stringere rapporti con i contadini, a mettere in piedi un laboratorio di trasformazione, ad appassionarsi al peperoncino, a rispolverare le ricette della nonna Palmira e ad ascoltare i desiderata della clientela. Insieme alle sue donne e ai suoi figli si è nascosto in un’azienda agricola, lasciando in mano al fratello Carlo gli affreschi dell’agriturismo e la produzione del vino. Le sue uscite pubbliche sono il manifesto dell’atmosfera degli anni ’80, dove c’era una pienezza e una piacevolezza che riportavano tutto verso un bello appagante.
Carlo è più lontano, rimane in cucina, fa della convivialità un nascondiglio da dove guardare, discutere, passare e poi richiudersi in cucina. Il suo vino è sincero e di retroguardia. Le acidità sono acide e le persistenze persistenze. Non ci sono molte leggende e molti racconti. La passione per l’aceto ci accomuna, il suo mosto è veramente pieno. Il resto è un silenzio connivente con quella realtà che condivide con suo fratello e che lascia volentieri al suo racconto.
Infanzia e adolescenza a Milano, miscellanea familiare, il Monferrato come luogo d’origine e luogo d’elezione e storie partigiane che degli Infernot e dei fienili han creato mitologie di liberazione. L’eredità, negli anni ’80, li ha portati a stabilirsi tra quelle colline e a cominciare a trasformare. Il peperoncino ripieno li ha portati fuori verso quel mondo gastronomico che non era ancora chiacchiera. Le anime erano le grandi cantine di frontiera, gli chef francesi, i Peck di quel mondo e luoghi come Portofino dove cercare gli agrumi nascosti negli agrumeti dei grandi alberghi e i collaboratori dal mocassino col fiocchetto. Quelli sono stati i tempi della scoperta, delle grandi amicizie, dei giornalisti dal naso fino, quelli sono stati i tempi della nascita della gastronomia come oggi la conosciamo. Meno prodotto tipico e più produttore. E il volto di Roberto era perfetto per appagare lo sfizio.
Tutto è partito dalle prugne, dal ramassin di quelle zone. La trasformazione è diventata laboratorio e il laboratorio tecniche per intaccare il meno possibile sapori e fragranze. Necessaria, per la visione delle cose di Roberto, la sterilizzazione dei suoi prodotti. Niente pastorizzazione, niente sotto vuoto e niente pressurizzazione. L’evoluzione del casalingo: tutto deve essere messo in sicurezza. Ossidazioni controllate, i colori delle confetture a posto, il sapore dei mandarini di Portofino eccezionale, essenziale e aspro. Perfettamente bilanciato. Sali e zuccheri sono corredo e non prevalgono mai. La bagna cauda è decisa, l’antipasto monferrino è croccante con le verdure lavorate alla perfezione e la mostarda d’uva è talmente ricca da non avere bisogno di altro. Lì c’è la tradizione di recuperare ricette e merende di pomeriggi atoni e colorati.
Il piccante è l’estro di Roberto, i sughi hanno un tenore e una compattezza, mancano un filo di equilibrio ma hanno una personalità fuori di dubbio. E così deve essere il piacevole. Senza tavole e senza leggi, con quell’onda che si sposta nel tempo e attraverso lo spazio. E val bene un pranzo, una straordinaria ospitalità e delle regole intime che si possono provare a condividere al di là dell’età, della società e degli interessi. La gastronomia è molto più storia che futuro, è molto più racconto che recensione, e lì non si può non provare per il Mongetto quel senso di nostalgia che rende tutto più bianco. Ci sono momenti e scritture e e poi ci sono gli uomini che le han vissute, le han riempite e probabilmente le hanno mitizzate. Ma è così che si va avanti, sulla strada dei Cantarelli e degli Onesti, su quelle strade lastricate dove non era necessario lambiccarsi per avere un tono, per riempire un blog o per comprendere un evento. C’erano poche origini e molti pensieri. Si creava e si criticava. Ora si guarda e si giudica… tutto lì…
AZIENDA AGRICOLA IL MONGETTO
VIA PIAVE 2
VIGNALE MONFERRATO (AL)