Bobbio Pellice. Val Pellice. Una delle Valli Valdesi. Insediamenti umani, ritorno affettato ad un cristianesimo primigenio ma progressista e aperto alla diversità, gli anti-Amish locali senza cuffietta e senza più retaggi. A pochi passi da qui si svolge il Sinodo annuale dove tutti i rappresentanti delle varie Chiese si riuniscono per deliberare e mettere in discussione. Intanto, nel mentre, in quello scorrere di un fiume con poca acqua, la Val Pellice non è stata messa in vendita e non è stata nemmeno acquistata. Pochi turisti, strade sempre più strette, pochi approdi facili alla libertà della vista, alberghi pressoché inesistenti, pochi ristoranti, poche aziende agricole in vendita diretta e gli allevatori/casari tutti in alpeggio a produrre Seirass del Fen (la loro ricotta stagionata nel fieno) e una toma assolutamente da controllare. Bobbio Pellice è l’ultimo paese di una valle fin troppo nascosta, affascinante, boscosa, con i tetti in pietra di Luserna e i tornanti ripidi tra castagni e betulle. Qui c’è ancora la cultura del raccolto e della costruzione, ma soprattutto, in un abitato di poco più di cinquecento anime, tra il benedetto e l’eretico, ci sono due botteghe di macelleria, due prodotti tipici, ma soprattutto due macelli.
Enzo Michelin Salomon e Dario Geymonat sono l’anima di una disfida vissuta in maniera molto differente dalle parti. Invettiva e leggenda contro concretezza e assaggio. Il paese ha le dimensioni dell’Italia intera, con vanti e umiltà riposti nella clientela. Qui, altro che magnificenza del porco, qui gli animali sono sempre stati una forma dissimulata di religione.
La famiglia Geymonat non ha un’araldica e neppure una mistica, ma ha una storia. Quella di un garzone di bottega che rileva una piccola macelleria, si allarga, cede l’attività al figlio che concretizza gli sforzi, mettendo in piedi una nuova generazione e l’ennesimo figlio a portare avanti il nome Geymonat a capo di una bottega.
Dario, sessant’anni passati da un pezzo, non dimostra più nulla, non ne ha bisogno. Tira dentro, fa passare dietro il banco, conduce il passo oltre la corte, aprendo le porte di una Consonno/estasi per intagliatori di carne.
Hanno provato a farlo smettere, a non fargli più tenere a banco il seirass, a farlo desistere dal produrre la mustardela e ad invitarlo vivamente a non crearsi il proprio macello, ma lui è passato sopra tutto con saggezza antica, ha aspettato i cadaveri e le rivoluzioni di Slow Food, e così ha potuto godere di una vittoria che a Bobbio Pellice non sa troppo di rivincita. È in bottega da quando aveva sei anni e aspettava i genitori rannicchiato sotto il bancone, dagli studi è stato prontamente sollevato per mancanza di dedizione, ha cominciato il lavoro di macellaio perché rinnegare una tradizione aveva istanze poco persuasive. Così, si è fatto una cultura ascoltando le persone e guardando tutto attraverso la perversione della ritualità: il sarcasmo. Parlare con i clienti, narrare quel filo di leggenda che macchia il rossetto, guardare il banchiere che va a scalare la Conca del Pra, perseguendo l’ennesima sfida con il figlio che non sa più come umiliare, appendere i salami in bella vista, produrre in casa il producibile e affidarsi alle logiche della bottega-completezza che ha sempre tenuto in casa il concetto di conservazione.
Dario Geymonat macella i suoi bovini di Piemontese, i suoi maiali pesanti, gli agnelli e i capretti, guardando al territorio come ad una scelta da non offendere. Così viene decisa l’alimentazione insieme agli allevatori, viene eliminato l’ingrassamento precoce, si rimane al solito fieno, alle proteine, ai cereali e alle leguminose, e si portano le bestie direttamente in bottega, salvaguardando quel benessere che è molto oltre lo slogan scarmigliato del callido metropolitano. La mustardela, il sanguinaccio povero di quelle valli, nato per recuperare tutte le parti del maiale che venivano scartate, una miscela di grasso e sangue, con una concia di vino rosso, porri, cipolle, cannella, chiodi di garofano e noce moscata, insaccata nel budello bovino, pastosa e povera in bocca nello stesso tempo, di difficile approccio, lontana dalle strutture e ottimo contesto agrodolce di piatti in giallo, tra mais e patate, abitudinari d’inverni senza fine, viene preparata ancora in una vasca speciale, antica, dove i materiali sono ancora quelli che Dario non ha messo in discussione. La testina di vitello ha una vasca dedicata, così come la trippa, i cartelli del periodo mucca pazza sono ancora lì a dimostrare un lavoro che va ben oltre il reale bisogno. Le bestie vengono frollate, lavorate, sublimate e portate in tavola. La sorella di Dario si è creata un piccolo laboratorio dove preparare gli agnolotti, e il figlio di Dario, insieme al padre, mette mano nella norcineria più profonda, quella senza scarti. Il salame cotto, risultante povera della crudità nobile, è strepitoso, controllato, con una concia leggerissima, il salame crudo ha una profondità potenziale e una salatura troppo invasiva, ma la materia prima, in tutte le sue lavorazioni, ha quella tenuità senza stress che traspare in ogni movimento…
… nel sorriso fuori dal tempo, nel suo reiterato intercalare “mi spiego”, nei suoi racconti eroici velati di ironia lancinante, nella sua montagna rappresentata da pochi inserti, nella sua gita a recuperare un cavallo/pony da macellare, nella sua folgorazione, nel suo innamoramento (“come quello per mia moglie”), nei suoi cento euro dati al proprietario e nella costruzione di un piccolo calesse, dotato di luci, per scorrazzare tra le anime dormienti, insieme ai nipotini e ai fanciulli di un paese che rimane lì sempre più immobile. Il sarcasmo dissolve qualunque paturnia e qualunque domanda, è respingente di una tristezza profonda che nemmeno la neve sporca riesce a portarsi via. Perché qui i tetti occludono ancora la luce, le ultime macchine di turisti si portano via Settembre, i negozi chiudono e rimane solo la sera, Dario con i bambini sul suo calesse…
MACELLERIA GEYMONAT
VIA MAESTRA 37
BOBBIO PELLICE (TO)