Il Panettone sotto il Vesuvio. Alfonso Pepe

Milano. Re Panettone 2011
Il solito Achille Zoia, nelle sue presentazioni del gotha delle realtà gastronomiche italiane, si sofferma, tra i primi, da Alfonso Pepe. Viso sorridente, cappello gourmet, bianco candido e sguardo tra lo sfacciato e il sicuro. “Lui è un mio allievo”.
Alfonso ricambia, gratificato, buttando sempre un occhio sul lavoro dei suoi aiutanti che affettano panettoni con disinvoltura, facendo assaggiare le varie tipologie.
Quando Achille se ne va, vedo il suo pupillo troppo impegnato, tra troupe televisive, interviste, richieste e clientela interessata e affamata. Lo saluto, già deciso a tornare più tardi.
Eccomi ed eccolo. Sempre alla sua postazione, sempre con quel sorriso velato di scaltrezza che respinge critiche e domande con fare rilassato, sagace e un filo strafottente.
Questa è la sua forza. Essere arrivato al parossismo della pasticceria italiana, trasformando una bontà geograficamente lontana in una tradizione futura. Ha segnato la strada. Adesso altri grandi maestri del sud lo hanno seguito, mostrando, nello stesso tempo, coraggio e poetico equilibrio.
Anche perchè, se non sai difendere un rito, è giusto che ti venga sottratto, rielaborato, finanche ridefinito. Quindi nascono i panettoni veneti, quelli piemontesi, di tradizione pinerolese e torinese, quelli bresciani… e prima o poi nasceranno quelli napoletani, salernitani o siciliani… senza l’adiuvo di pistacchi, fichi, mozzarella di bufala, ricotta di pecora o piennoli del Vesuvio, ma con “normalissimi” prodotti: farina 00 (piacentina, Dellagiovanna ndr), tuorli d’uovo, miele, scorza d’arancia, bacche di vaniglia, uvetta e lievito madre (e qui la derivazione è dissimulata…).

– Panettone: basso, trentasei ore di lievitazione, soffice, piccole occhiature si alternano a grandi alveoli, il candito e le uvette accompagnano un gusto raffinato ma non scontato che si lega perfettamente ad una pasta soffice e non particolarmente umida. Sopravvalutato ma non troppo.

E quando in maniera provocatoria, ma rispettosa, gli banalizzo la scelta, attraverso una domanda, lui mi risponde citando l’Alto Adige, le vette innevate e le tradizioni figlie di un popolo e di una regione. “Magari la migliore pastiera d’Italia la fanno a Bolzano… io non potrei che esserne fiero”. Ed effettivamente basterebbe rapire il senso, lo sciovinismo e il rispetto dei nostri cugini d’Oltralpe, per capire qual possa essere l’unica strada della difesa: l’artigianato non deve temere l’artigianato ma il surrogato, la ripetibilità dell’errore, la facilità e la lunga conservazione.
Mentre prendo un bigliettino dove appuntarmi il suo numero di telefono e il nome di uno straordinario contadino e produttore di salse, mi accorgo di come sia il retro di quello di Iginio Massari. Rido. Lui si allontana rispettoso, adagiandosi, con un movimento, tra l’impettito e l’inspallito, sulla forma della deferenza. “Una volta il maestro Massari mi ha fatto i complimenti per un dolce (un tiramisù mi pare ndr). Mi ha detto ‘Bravo! Veramente buono”. Se lo ricorda ancora con l’orgoglio dato dall’eccezione di un uomo che, nella sua unicità, trasforma le giornate, i momenti e le carriere, attraverso poche e mirate parole. È come se questo ricordo avesse una base comune dove riposare e andare avanti nel racconto.
Gli chiedo lumi sul lievito. Mi dice a bassa voce, prima che Achille lo possa sentire, che il suo matura in acqua e ivi rimane costantemente. “Alla maniera di Morandin?”. Lo becco. Sorride e gira la testa.

Infine assaggio il suo panettone con fichi bianchi del Cilento che aggiunge un tocco di amaro e uno di territorialità: il fico campano mi riporta sempre indietro, mi fa sentire sull’autosole alle sette di mattina con una cassetta di Battisti nel mangianastri, mia madre dormiente e mio padre alla guida, direzione Sicilia. Trova quel contatto che ti riapre alla Campania come terra di mezzo, come ricordo di viaggio e come stimolo per un’italianità più matura e meno sicura…

PASTICCERIA PEPE
VIA NAZIONALE, 2
SANT’EGIDIO DEL MONTE ALBINO (SA)

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