Il pesto e la sua resistenza… Gianni Sacco

Pra’. Genova. Entrarci, prendendone coscienza è devastante. L’autostrada è sempre stata un passaggio per il mare o per qualcosa che assomigliasse ad un centro storico. Fermarsi vuol dire rendersi conto della degenerazione. Vuol dire finire nel cul de sac del Porto Container che ha distrutto il litorale praese dove i nobili e i borghesi genovesi avevano stabilito il loro buen retiro, con estensioni di terreno date agli agricoltori in quella forma di mezzadria che tutto coltivava. Dal basilico alla melanzana. Pra’ era una distesa sabbiosa che diventava montagna e agricoltura. Poi i nobili, persi i privilegi, cedettero parte dei loro terreni. Quei contadini, che erano riusciti ad accumulare il canonico gruzzoletto, si permisero di diventare possidenti terrieri.

La coltura del basilico è sempre stata una coltura dell’ambiente. Di quel microclima congeniale, chiuso tra mare, torrenti e montagne subito a ridosso, che ha fatto di una coltivazione la coltivazione per eccellenza. Le serre sono state l’anima della delegazione genovese. Poi gli anni dei “sacchi”, i mirabili seventies, hanno portato mostri architettonici, autostrade avveniristiche e container d’immondizia. Corrompendo il territorio nella sua origine e nel suo fine. Le colline sono diventate orrore, le serre, intruppate in mezzo alle barriere e ai palazzi, un grimaldello di anticonformismo.

Quello che è rimasto è l’anima delle persone, quell’orgoglio semplice di non darsi per vinte. Almeno fino alla fine. La famiglia Sacco, una delle poche rimaste a coltivare il basilico su questi terrazzamenti, ha deciso di provarci e di trasformarlo in pesto, prevedendo lo stress da reality, impressomi da Raimondo, uno dei quattro fratelli, su una roccia dissacrante “Negli anni ’90 ballavano tutti. Adesso sono diventati tutti chef…”, facendosi beffe della loro salvezza, quella delle cuoche diventate risorse umane, manager e fermate dell’autobus.

Gianni Sacco, il maggiore dei fratelli, mi accoglie con quella nuvoletta ironica che non può togliersi nemmeno in un dialogo estetizzante, dove dovrebbe mostrare l’azienda per quella che è. E così arriva laddove in pochi riescono. Nella comunicazione. Serre sopra e sotto l’autostrada. Agricoltura di fiducia e passerelle in legno dove il padre gli ha insegnato ad appoggiarsi per raccogliere le piantine prima che inizino a spigare. Estirpando dal terreno foglia per foglia diverse volte l’anno. Di notte d’estate, di giorno d’autunno e d’inverno. Con un ciclo di un paio di settimane a luglio e con un ciclo di un mese e mezzo a gennaio. La vita dei fratelli Sacco, e di quell’unico lavoratore legato da più corde alla famiglia, è totalmente dipendente dai periodi di raccolto, dalle lune, dal caldo, dall’umidità e dalle ore di sonno. Per un prodotto così delicato, così vittima dell’ossidazione, il tempo è tutto. Storico e meteorologico.

L’urbanizzazione si è portata via la poesia.

La raccolta, i fratelli la fanno ancora a terra. Provano sementi e provano coltivazioni idroponiche (la normalità per altri agricoltori ma non per loro). Le serre stanno aperte per prendere il calore, si chiudono e si coibentano. Sono la necessità di adattamento a quella geografia antropica che ha anteposto il culo al cervello. Per sopravvivere, hanno deciso di cominciare ad invasettare. Partiamo da un presupposto genovese, che è anche dei Sacco: il pesto si fa a casa o in ristorante.

I tempi, la facilità e il relativismo l’hanno chiuso in un vasetto. I ristoranti, alcuni anni fa, iniziavano a lavorare presto, ora, la mattina, sono tutti chiusi. Il mortaio è nel solaio e i pesti si cambiano d’etichetta come le modelle d’abito. Quindi l’eccellenza rimane prerogativa della fatica e del sudore, il resto è un surrogato. Può essere prodotto con basilico turco già ridotto in semilavorati o può rimettersi ad una filologia etica che trasforma gli aromi mentolati di liquirizia e limone in un trasformato senza scuse ma senza follie. Olio, aglio, basilico, fiore sardo, grana padano, pinoli e sale. I Sacco non vanno a Vessalico alla ricerca di quello che non c’è, guardano alla Sardegna come una buona fucina di pecorino, prendono il pinolo che resiste alle vendite. Potrebbero lavorare di più sulla materia prima, magari guardando San Rossore o qualche pecorino dalla sapidità più controllata (la montagna Pistoiese o qualche lavorazione romagnola-marchigiana), potrebbero fare un prodotto con una personalità più spiccata ma rischierebbero di sbilanciare qualcosa di buono. La risultante è assolutamente concordante: nessuna pastorizzazione, conservazione ad olio per un mese al massimo intorno ai 3-4 gradi, nessuna acidità e nessun odore stantio da vasetto, antiossidante necessario, pecorino che arriva d’impatto lasciando il resto alla dolcezza integrale del grana, l’aglio è più una sensazione che una presenza, un filo di resina da pinolo e tutto il resto concentrato in quel basilico dal sapore insuperabile. Un paradigma degli accoppiamenti.

Gianni affiora dall’amiantite palatale dei gusti contemporanei, chiedendo pareri, consigli, recensioni. Ha lo sguardo severo di sua madre la domenica dopo pranzo. Ha provato a dare visibilità ad un prodotto così ben definito da non avere una ricetta, da non avere un ingrediente. Il genovese aveva una salsa “più selvaggia e meno codificata”. Il pesto era l’anima della cucina. Gianni ha un passato dove riscontrarsi e un presente da non deteriorare. Il genovese è il genovese e il milanese è il milanese. Il fascino esotico è una ricetta con una ripetibilità e una struttura. Il pesto Sacco, nel marasma acido contemporaneo, è confortante, sembra un brano slowcore. I parossismi di bontà sono di grembiuli grassi e femminei e di mortai in marmo… e lì devono stare…

 

AZIENDA AGRICOLA SACCO

VIA BRANEGA INFERIORE 14

GENOVA – PRA’

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