Borgo a Buggiano, ma la parte brutta. Pianura. Autostrada vicina. Uno di quei posti che non ti ridanno l’immagine della Toscana e non la distribuiscono nemmeno nei volantini in giro per il mondo. Supermercati, aziende, rotonde e una piccola viuzza che dissimula indifferenza dietro la coltre spessa di quel pezzo di terra che non richiama La Toscana se non nella lentezza dei gesti e nella rapidità della lingua.
Ecco la cartolina. Un’azienda agricola, come se ne trovano tante a ridosso della pianura padana, dove i fattori producono latte crudo, trasformano formaggi, coltivano il fieno, prendono i soldi dalla comunità europea, si costruiscono le ville, diventano imprenditori agricoli, si lamentano della crisi, mandano i vaccari a scioperare e quando gli chiedi lumi sulla bontà dei loro prodotti, ti guardano con quella indifferenza, non dissimulata, che con una scrollata di spalle e uno sbuffo ti riporta l’immagine dell’uguaglianza e della mediocrità.
Ma qui non siamo in Pianura Padana. Qui lavora Fabio Lenzini, casaro per nobili origini e casaro per scelta virulenta. Una di quelle persone che riesce a comunicare attraverso rimandi, segreti, battute, sarcasmo, ma soprattutto attraverso la gestualità del proprio corpo. La passionalità e il colore della propria espressione prendono i toni dell’algida precisione e dell’amore incondizionato, nel momento esatto in cui prende in mano un formaggio.
Facciamo una premessa, semplice e chiara, in modo da mettere tutto tra il secondo, il terzo e il quarto piano, finanche il suo illuminante mondo di devozioni e sogni: il suo formaggio è un prodotto straordinario.
La logica fondante che muove la sua passione di casaro è la non apparentabilità a nessun prodotto già conosciuto.
Il pecorino della montagna pistoiese (che di montagna ha solo il nome e che di presidio ha la brochure…), prodotto in collaborazione con il padre, suo mentore e maestro, non lo diverte più, lo ha stancato, “troppi interessi, troppe attenzioni, troppi produttori, troppe leggende. Latte crudo. Ma il latte crudo lo usava mio nonno 50 anni fa per fare lo stesso prodotto. Anzi con il caglio naturale. Oggi me lo vietano… Lo difendono. Come se un giorno, si fossero svegliati, pensando che avremmo avuto bisogno di loro. Io sono uscito dal presidio. Troppe logiche commerciali che mi interessano poco. Io sto qui faccio il mio formaggio. Ho comprato quattro mucche (e non in senso metaforico…) e faccio i miei prodotti. Freschi, veloci. La ricotta, lo yogurt… Poi il ravaggiolo (o raviggiolo)… mi vogliono spiegare che dall’altra parte (in Emilia ndr…) ci sono quelli che lo hanno inventato. Basta. Anche qui bisogna trovare un’origine… Ora mi sono messo a creare formaggi nuovi. Prima o poi mi diranno che dall’altra parte del mondo, c’è un casaro che lo ha pensato trent’anni fa…”.
Ecco il suo pecorino della montagna pistoiese. Ironico, tagliente, genuino, puro, con tre nomi differenti che ne definiscono la stagionatura (fresco, abbucciato, da asserbo).
E’ il sapore di latte di pecora. Quello che non puoi pensare di poter trovare. Quello per cui lui ha lottato, e probabilmente perso, tutta la vita e quello che io ho difeso, pur non conoscendolo, da tutti quelli che mi guardavano torvo quando dicevo che il pecorino non è il “mio” formaggio. Quello che rimette a nuovo la definizione di fresco e di stagionato. Stravolgendola e rendendola inutile. Vana. Vuota. Quello che ti rilascia al mondo con una paura in meno.
E la cosa ordinaria, perchè solo all’interno dell’ordinario lo stupore ha quell’effetto rivoluzionario che Maupassant attribuiva alla luna, risiede nel fatto che non è il suo formaggio migliore. E lo si capisce subito. Dagli occhi. Dalla reticenza con cui lo propone. Dalla sua voglia di parlare delle “sue” mucche e dall’incessante cura con cui accarezza i “suoi” formaggi. Quelli per cui ha combattuto. Quelli che un giorno, quando il presidio slow food delle mucche ambrate delle pianure dell’Uzbekistan avrà preso piede nelle migliori boutique del gusto, lo costringerà a migrare o a smettere di fare i formaggi. Con un sorriso malinconico e una disperazione coatta, estesa a quelle venti-cinquanta-cento persone per cui il pecorino toscano era diventata un’immagine più nitida, meno ingarbugliata, meno impaurita.
Le sue vacche, di razza bruna alpina e comprate in Germania, gli danno tre o quattro formaggi, che non ho difficoltà a definire unici:
– stagionato: sapore di foraggio e di erbe, piccole occhiaure disposte su filari meno casuali di quanto ci si aspetterebbe, colore giallo paglierino, crosta lavata molto dura, un leggero pizzicore durante la masticazione, un bicchiere di latte appena munto al contatto col palato. Il retrogusto lascia di nuovo spazio al gusto in una palingenesi perdurante. Assuefacente.
– stracchino: inventato insieme ad un “fantasma gastronomico”, di cui non vuole fare il nome, non ha nulla a che fare con lo stracchino. Me lo propone prima della salatura. Mia moglie è rimasta lì. Io ho rischiato di spruzzare il latte, come un bambino senza denti, al solo contatto con lingua. Ci ha aperto le labbra, spalancandole in un sorriso. Apotropaico.
– fresco: cagliata lattica (con coadiuvo di qualche fermento per un migliore sviluppo dell’acidificazione). Senza sale. Acido. Controllato perfettamente. Bianco ricordo. Raro. Anzi rarissimo. A queste latitudini la lattica è l’immagine di una capra lontana. Ci si potrebbe fondare una nuova estetica del gusto. Con tanto di certicazione e onori.
Tutto questo, ed è un bel po’, presentato con ironia, gusto, un misto di leggerezza e sapida lamentela, rapporto umano, passione dirompente e misteriosa incredulità.
Credo che nessuno, che ami veramente qualcuno o qualcosa, possa parlarne senza lasciar lì vent’anni di ricordi, due lacrime, un viso sognante, una speranza per il futuro e una serenità al di là di tutto. I suoi formaggi non sono altro che questo…
…e poi c’è la ricotta di pecora… lasciata per il finale e racchiusa in uno sguardo complice tra lui e la sua ragazza… che non è altro che il sorriso di chi ha trovato… eccezionale!