24 settembre 2011. Ore 13.00. Bergamo. Ol Formager.
Giulio Signorelli telefona alla moglie per dirle di non aspettarlo per pranzo. Spegne il cellulare e mi confida che quando parla di formaggi i minuti diventano ore. Questa cosa mi solleva e continuiamo il nostro viaggio nelle Prealpi Orobiche…
Un’istituzione. Passione, straordinaria capacità di ascoltare e discreti e deferenti profumi di rispetto verso l’antico e verso gli artigiani…
Guglielmo Locatelli. Strachitunt. Questi sono i nomi del casaro e del formaggio di cui Giulio va più fiero. Oltre vent’anni fa ha stimolato il primo in modo che riprendesse la lavorazione del secondo. E così è stato. Si è creato un Consorzio di tutela e si è cercato di coinvolgere i formaggiai della Val Taleggio in modo che si ritornasse alla lavorazione all’antica. Niente. E’ rimasto solo “quello” di Guglielmo.
Poi c’è lo Strachitunt di altri. Ma è un altro formaggio e, probabilmente, è un’altra storia…
Ho un pomeriggio libero. Gli chiedo il nome di qualche produttore da poter andare a trovare. Fa mente locale e, mentre mi raccomanda Gianfranco Paganoni come grande produttore di Formai de mut, si ricorda di come non sia ancora tornato dall’alpeggio.
Inizia così a parlarmi di un personaggio che fa parte del Consorzio di Salvaguardia del Bitto Storico, della sua storia personale e di come valgano la pena quattro chiacchiere con lui per capire, scoprire, assaggiare quello che, per alcuni, è il più importante formaggio d’alpeggio italiano e sicuramente quello che può invecchiare di più.
Nella mia testa preordino un viaggio verso la Val Gerola da compiersi di lì a breve. Magari dopo un paio di settimane.
Impegnato ad attendere che dia un nome alla mia giornata, e mentre passo in rassegna un po’ di formaggi, mi accorgo di come Giulio componga un numero sul cellulare, dicendomi “Ti mando da Alfio”. Non faccio in tempo a far presente come sia complesso spingermi fino alla provincia di Sondrio, che ha già completato la chiamata e preso l’appuntamento. “Tranquillo. Il suo alpeggio è in Val Brembana…”.
24 Settembre 2011. Ore 15.20. Ponte dell’Acqua, Mezzoldo. Albergo Genzianella.
Piccolo garage con scritto Ricotta e Formaggi. Anziana signora (la zia di Alfio… poco affabile e con poco affetto in eccesso… al ruolo di nipote mi son prestato veramente male…) che ci dice di attendere. Sta aspettando anche lei. Alfio doveva essere già lì.
Nella pazienza, mi dedico un paio di foto da luogo comune con dei fiori, un ponticello sopra l’infanzia del fiume Brembo e un paio di baite di legno e pietra così rassicuranti. Dopo una mezzoretta arriva Alfio con la Jeep.
L’alpeggio (situato sull’Alpe Cavizzola) è terminato il giorno prima. Lui si sta organizzando per rientrare a Talamona, dall’altra parte del Passo San Marco. Canottiera, muscoli ed emozioni in bella vista. Quarant’anni portati egregiamente. Occhi azzurro vitreo che non lasciano nulla alla menzogna.
Pochi convenevoli e inizia a raccontare…
Caglio di vitello. Sale. Latte crudo solo esclusivamente di Vacche Brune Svizzere originali (80-90%) e di capre di razza orobica (10-20%). Nessun tipo di fermento. La maturazione inizia nelle casere d’alpeggio e può protrarsi per oltre dieci anni, lasciando nel formaggio caratteristiche organolettiche uniche. Ogni anno i sapori e le sensazioni si acuiscono o regrediscono, dando ai sensori gustativi la possibilità di nuove scoperte.
Il formaggio che mi propone Alfio è un Bitto giovane. Tre mesi di stagionatura. Occhiature ad occhio di pernice molto profonde e regolari, quasi eccessive. Colore giallo paglierino. Aromi di erba appena tagliata, latte appena munto e cantina appena accennata. Gusto di pascolo che rimane lì sospeso, tra lingua e palato, per il tempo necessario a desiderarne un altro assaggio…
Alfio e i suoi tredici compagni del Consorzio di Salvaguardia del Bitto Storico hanno dovuto essere difesi e si sono dovuti difendere. Ci hanno pensato associazioni, professori, consorzi e libri e ci hanno pensato loro.
Il nemico era uno. La modernità.
Quel male oscuro che fa abbassare gli occhi ad Alfio, sicuro che la sua strada, quella dell’ortodossia un po’ talebana, sia la migliore.
Quella che ha permesso di espandere il nome Bitto a zone di produzione e a metodi di caseificazione che col Bitto non avevano nulla a che fare.
La stessa che ha permesso a molta gente di arricchirsi, ad alcuni rivenditori e affinatori di celiare il cliente, raccontandogli storie, leggende e fandonie, e a quei pochi “ribelli” (così come a ragione li definisce nel suo libro Michele Corti) di combattere contro quell’autorità così fondante nella nascita di qualcosa di diverso, di unico, di grande e di esistere, identificandosi in un modo altro.
La recriminazione non si è trasformata in un ringraziamento ma è comunque diventata un ricordo lontano di notti insonni.
E poi a differenza di un altro grande formaggio cresciuto attorno ad una forte Associazione, come il Bettelmatt, il Bitto permette al nuovo, anzi, a quel nuovo che ha aperto le orecchie all’insegnamento e alla crescita, la possibilità di fregiarsi della caseificazione… e allora ben vengano le lodi, i consorzi…
… e i casari come Alfio… un ingenuo poetico. Vivo, salutare, integralista, positivo, comunicativo. Che alla mia richiesta di associare un aggettivo alla parola alpeggio, senza pensarci un minuto, mi risponde, abbassando lo sguardo, “Sono a casa”…
ALFIO SASSELLA
VIA VALENTI, 16
TALAMONA (SO)