Monzuno. Appennino Bolognese. Dicembre. Macelleria Zivieri.
Mi accolgono Aldo e suo padre Graziano. Tra di loro si respira un clima familiare come da nessun’altra parte. Mi prende Graziano e inizia a raccontare.
Faccia segnata dal tempo, dal destino e da anni di sveglie mattutine in mezzo ai suoi coltelli, ai suoi attrezzi e alle sue carni. Il ricordo di Massimo (suo figlio scomparso da meno di tre anni e vero rivoluzionario del mestiere…) è sempre presente. In qualunque suo gesto, in ogni frase, negli sguardi languidi e umidi che non riesce a nascondere e concede con umanità sopraffina e delicatezza nera. Esperto di tartufi, fine norcino, sguardo non rappreso dall’inerzia paesana e nemmeno dal tradizionalismo paterno che tiene lontano la tracotanza giovanile dei figli con la parola “moda”.
Un genio a suo modo. Sicuramente una mente molto oltre tutte le parole (che si intrecciano in racconti, ricordi e merende…) che possono uscire dalla sua bocca.
Mi congeda con una frase da mettere in calce a qualunque esistenza “Il fato mi ha tolto tutto. Io credevo di essere già a posto con lui. Ora solo cose positive. Invece è ancora lì…”.
Poi arriva Aldo. Una passione diventata dovere. Tre anni. Ha preso in mano la guida della Macelleria. La “sua” comunicazione, i suoi eventi, i “suoi” animali. E li ha portati avanti. Ha studiato, ha trovato dei punti di contatto. Ha lo sguardo della bonomia ma non del rimorso. E’ lì perché non potrebbe essere altrove, ma lo fa con grazia, leggerezza, senza necessità, con una conoscenza, accumulata negli anni, impressionante. Tagli, cotture, salumi, carni, razze in estinzione, allevamenti, mangimi e clima. Disserta con grazia, senza supponenza, con la vanità data dal ricordo. Mi racconta di Massimo, delle sue scelte radicali, del fassone piemontese, della Granda, della cinta senese (allevata insieme a Fulvietto Pierangelini) e della mora romagnola (il vero motivo che mi ha spinto fin lì… la sua rarità mi affascina).
Le sue frollature sono abbastanza lunghe. Non meno di quindici giorni. Per un bue grasso si può arrivare ad un mese. Non disdegna la fiorentina. Non ama particolarmente il filetto. Mentre parla, suo padre mi indica lo scamone e i suoi tagli preferiti, trovando l’assenso di Aldo. “Le persone mediamente pensano che il filetto sia la parte migliore perché è l’unica che, nelle macellerie o nella grande distribuzione, rimane morbida”. Sfiora in continuazione l’odore di carne che si spande per il locale, come fosse un gesto ieratico e necessario. Tirando su col naso, è come se cercasse la serenità. Sorride. Poi si mette in gioco e inizia a farmi assaggiare: salumi.
– prosciutto cotto di mora romagnola: una rivoluzione estetica. Ecco le parole rubate che meglio lo definiscono. Il più buono della mia vita. Cotto in forno a pietra. Senza nessun adiuvo di nitrati o siringhe, ha il colore scuro dell’ossidazione e del tempo. Strato di grasso di marezzatura, spesso e e cremoso. Si spezza in piccoli filamenti che vivono di vita propria, componendo un puzzle in cui i sapori si rincorrono e si conciliano. La parte esterna, il cuore, il grasso e l’aria rimangono fraintesi verso l’idillio finale della morbidezza e di un gusto che ti porta oltre e che ti porti dietro per almeno mezza giornata. Rivoluzionario nella sua tradizionalità.
– prosciutto crudo di cinta senese: odore persistente di stagionatura, con riflessi aromatici, quasi affumicati. Salatura bilanciata alla perfezione con il sapore che si concentra già dal primo contatto con il palato. Gusto odoroso e nobile… un poco snob. Con quel suo essere gourmet in mezzo a boschi, curve e alberi di castagno. Sguardo slavato e giacca di tweed. Inafferrabile.
– salame montanaro di mora romagnola: polpa di maiale (“inclusi i lombi e i prosciutti”) e grasso. Sapore di polpa di maiale e grasso. Nulla da determinare oltre.
Carne.
– battuta di fassone al coltello: vengono utilizzati diversi tagli, sia dal posteriore che dall’anteriore, che donano alla carne diversi colori. Il melange, assemblato attraverso il sale di Cervia e un filo d’olio, dona al mondo la capacità di emozionarsi ancora per della “semplice” carne cruda.
– svizzera: così la chiama Aldo. Né Giotto, né hamburger. Rispetto verso la tradizione di terre dove il trito rappresentava l’esigenza. Patatine fritte e ketchup Stokes: settembre, diario nuovo, astuccio pieno di penne, pallone in cortile e corsa tutto sudato a tavola… ricordo di mamma e del suo grembiule…
– tagliata: Aldo, solitamente, la prepara avvolta in sottili fettine di lardo di cinta senese (e qui la mia immaginazione viaggia e si appaga senza la prova…), a me la propone semplice: rosso corallo… tritata dal palato e dalla lingua… Eccezionale.
Poi c’è la salsiccia passita (insaccata nella filetta), lo zampone e il cotechino… e infine, il nodino di mora romagnola: bianco, odoroso, succulento… ben frollato contiene quel glutammato naturale che esalta il sapore unico di questa razza: quel suo strato di grasso protettivo.
Aldo continuerebbe a spiegare e raccontare, ma lo lascio a sua moglie e alla sua pausa, convinto che la bontà dei suoi occhi sia un patrimonio da tutelare e non da ricordare…
MACELLERIA ZIVIERI
PIAZZA XXIV MAGGIO, 96
MONZUNO (BO)