Badia Calavena. Le contrade si susseguono con etimologie cimbre, case abbandonate, beccatelli di connessione tra case e tetti di vecchiette con aie domestiche e un’assoluta deferenza verso il paesaggio. Ogni tanto dei puntini bianchi in mezzo ad un verde estenuante dimostrano l’esistenza della pecora. In una Lessinia dove le malghe e le vacche sono da sempre la necessità e la tradizione. Le finestre delle case, come le famiglie locali, sono assolute ed antitetiche. Al turismo e al belletto. Rustici, abitazioni, locali e nessun’altro. Qui, nella valle d’Illasi, in questa pianura che non è ancora montagna e non più collina, con gli alberi di ciliegio e di castagno a dominare il paesaggio, sono sparsi la maggior parte degli allevatori di un’antica razza autoctona: la pecora Brogna.
Il racconto di Massimo Veneri, allevatore e presidente dell’Associazione per la promozione e per la tutela della razza, parte da lontano, parte da Plinio Pancirolli: epoca medievale, la lana delle pecore veronesi era tra le più quotate sul mercato europeo, valeva quella delle Fiandre. I Della Scala infliggevano pene durissime a chi provava ad incrociare la razza, senza manetnerne la purezza. La pecora dalla testa rossa (così detta per via della sua morfologia, così bene adattabile ai pascoli, alla montagna e alle rocce), durante la crisi della sovranità veneziana, con i suoi gabelli e le dispotiche imposte di rendite bovine, lasciò spazio all’introduzione del gelso e del baco da seta. Per sopravvivere finanziariamente, Venezia aveva puntato tutto su quei prodotti d’esportazione, come le conce o come le sete, così apprezzate in tutto il Mediterraneo. La lana era diventata un prodotto marginale. La pecora Brogna, lentamente, sparì, dalle valli e dagli interessi.
Oggi è stata salvata dall’intervento di alcuni allevatori che ne hanno tutelato attitudini e tradizioni. “La Pecora Brogna si presenta oggi come una pecora di triplice attitudine. Una dote che non ha valore in questa epoca di specializzazione ma al contrario importantissima per l’homo medievalis”.
Ecco il punto. Ecco l’aggravio. Qui stiamo parlando di una lana che, lentamente, grazie ad un’azienda biellese, verrà rimessa sul mercato, attraverso l’Associazione e attraverso canali commerciali che possano comprendere l’esigenza di un prodotto “che non infeltrisce mai”. Di un latte medievalmente utilizzato per il pegorin e per il mistorin e contemporaneamente ripreso dalle lavorazioni di Erbisti a Roverè, unico casaro e allevatore competente, in un territorio dove ormai in alpeggio si trovan solo vacche frisone (razza che con le cenge montane non ha nulla cui spartire…) e terribili caseificazioni. Di una carne di agnello, valorizzata dal solito Menini, che, in assenza di olezzo ovino, vanta un sapore intenso e una masticabilità rustica. Il salame è eccezionalmente selvatico, senza sapori estranei, con dei retrogusti di scoglio, assolutamente inaspettati. Veramente un bel prodotto.
Dalla casa di un ignoto allevatore, con un boscaiolo cimbro dal dialetto inafferrabile, la bevuta facile e l’impropero burbero contro tutti e contro tutto, un fratello dormiente, una madre gentile e la possibilità di potere assistere un artigiano locale nella costruzione di un trombino (tipico quanto antico schioppo festaiolo e valligiano…), mi sono trovato sul crinale di una collina, in mezzo ad alberi di marroni, ciliegi e noccioli selvatici, alla ricerca di una parte del gregge. Il muso rosso, l’assenza di corna negli arieti, la docilità delle pecore, la bellezza di una razza antica con un’origine variabile nel corso dei secoli, la bellezza di un paesaggio intonso, dove i pascoli assomigliano ancora ad una tradizione contadina, con dizionari risicati, poche parole selezionate, acqua calda da fuoco diretto, grappa nel caffè e un’ospitalità che non guarda né scarpe né cenci… ecco tutto.