Erice, dove trovare la nebbia offre quel senso di torvo che in Sicilia diventa imperscrutabile. La solarità del giorno non riecheggia che nei pullman, nelle salite e in quel borgo medievale che ogni tanto prova a lasciarsi andare. La salita è un panorama incostante, i tramonti fenici, le fortificazioni a trecentosessanta gradi e i souvenir gastronomici sono parti dello stesso compromesso che bisogna stringere, attendendo che il paese si svuoti, rilasciando l’eco e l’oro vecchio senapato delle case che rivelano il sole e gli stilemi dei siciliani ripetenti sempre la stessa leggenda. Questo è uno dei borghi più belli, più completi, meglio tenuti, il dubbio non attiene più i pomeriggi, rimane riflesso, perduto, quasi come uno scacciapensieri in un film parodistico, ha “impupato” facce, baffi, coppole e calzari, ha preso il passato trasformandolo nel centro di ogni discussione, fuori dai dilemmi e dalle perplessità. Erice è quella Sicilia che viene ricercata e trovata proprio perché in superficie. Manifesta e lampante come solo il decoro deferente riesce ancora ad essere. Scavando, bisogna cambiare posizione, luce, geografia e incanto, ma è una cosa che concerne la fuga. E così provo anche io a rimanere assuefatto.
Maria Grammatico, una storia di devozione, riscatto e favella, diventa anche il mio di obiettivo. La sua è una storia famosa, mandorle amare, conventi, dolci e abbandoni. Una volta uscita dal Monastero di San Carlo le era rimasto in mano la povertà, qualche ricetta rubata con gli occhi notturni e qualche kilo di mandorle. I pizzini delle dosi nascosti e una possibilità commerciale. Dai dolci in casa al piccolo laboratorio fino agli oltre venti dipendenti di oggi. Sfortune, fortune, severità e rigore. Il dolce di Erice, quello che riporta ai monasteri di clausura, ai biscotti Ricci del Gattopardo, al dolce come maniera di contraccambio del favore, ormai famoso nel mondo, continua, senza dubbi e delucidazioni contemporanee, ad uscire dalle mani e dagli ordini della signora Maria, sempre presente in prima linea. Di un’imponenza ironica, abituata alla comune gentilezza, non ho imposto il mio punto di vista su materie prime ondivaghe e casuali. Il dolce in Sicilia, quasi mai, si gusta solamente con il palato. Ci sono storie, sguardi, costrizioni e fantasie che vanno oltre, che non impongono la critica e che se ne fregano dell’attualità. I sapori antichi delle conserve di cedro dei Cuscinetti, di rum, di bagna, di mandorla, le consistenze melliflue delle croste, i Buccellati di fichi, le Palline all’arancio, le Genovesi da rimettere a posto, i Dolcetti al liquore, l’estetica della Pasta Reale, gli ottimi Sospiri sostenuti dal bianco d’uovo, i Dessier con la mandorla tostata e i Bellibrutti agrumati diventano un’assenza di discussione, assolutamente privativa, che non apporterebbe nulla se non la solita barbara critica del turismo e dello scontrino. Alcuni dolci sono bilanciati, altri sono impolverati, questa è la Sicilia che si fa poche domande, ma che permette la popolarità oltremare. Senza bisogno dell’autocoscienza… in quella storia, fatta di mito, leggenda e una spolverata di realtà, che, in una vita come quella di Maria Grammatico, ritrova il riscatto, l’abitudine e la tradizione. Sospendere il giudizio non è mai stato così soffice…
PASTICCERIA MARIA GRAMMATICO
VIA VITTORIO EMANUELE 14
ERICE (TP)
@foto credit Antonino Bartuccio