San Martino Buon Albergo. Centro poco ridente alle porte di Verona. Qui non passano i turisti. Il tanto al kilo e il mordi e fuggi fanno parte di mentalità lontane, più cittadine. Qui c’è una strada regionale che taglia, come nei paesi di un imprecisato hinterland diventato un generico non luogo, e che prende il nome di un personaggio storico o di una località. Qui scorrono le macchine e probabilmente non guardano sotto le tende. Lì sotto si nascondono due locali attigui. Pizzadare’ e Sapore’: nomi altisonanti che, ad una non troppo metafisica spiegazione, si rivelano un’abbreviazione, molto veneta, del nome del titolare, Renato Bosco. Uno straordinario lievitista, prestato alla pizza, almeno per ora, con coscienza critica, agio e mani da clavicembalista non particolarmente temperato.
Una scorza di felicità lo pervade e mi pervade fin da subito, da una stretta di mano, senza definizioni aggiunte, con parole che dividono lo spazio con un sorriso. Mostra brevemente, si scusa perchè dovrà allontanarsi un po’ e torna a fare le pizze. Ci lascia nelle mani di Luce. Una ragazza molto preparata, con la passione per la gastronomia applicata ad una formazione (meno ad una forma mentis) economica. Racconta, spiega, aspetta i giudizi, consiglia. Ha quel qualcosa dell’oste che mal si applica alla stilizzazione della femminilità ma che apre chiaramente gli occhi su un futuro possibile. Quando la narrazione sfiora alcuni nomi e alcuni loghi comuni, la sua comunicazione è competente e ricca di punti di vista. Non è una salutista “del tutto è bello e sono tutti bravi”, ha quella dogmatica che lascia il nero, nero e il bianco, bianco, senza quelle sfumature eteree e fascinose della piaggeria.
Il locale, come loro lo intendono, è un temporary restaurant in continua trasformazione. Dal compensato come materiale di riciclo, alle sedie, una differente da quell’altra, dagli ingredienti, efficaci ed alternati a seconda della stagionalità, agli stessi impasti, in perdurante cambiamento. Ma dietro tutto questo, c’è un lievitista come Renato, che guarda al topping come corollario e intransigente celebrazione di una farina (Mulino Quaglia, con poche eccezioni, forse un Kamut dell’Antico Mulino Rosso) e di un lievito che non possono essere traditi.
Il suo lavoro sulla pasta madre parte da lontano, dagli anni ’80. L’unico mulino che accompagnava la sua pizza al lievito di birra (non demonizzato nemmeno ora, ma messo a frutto nelle ciabatte o, in piccola percentuale, nelle sue focacce romane che devono sprigionare fragranze da consumare… e poi ri-consumare e alla fine chiedere “ma domani?” e, prima di ricevere una risposta, capire che forse è meglio tornare nell’acme consumistico e continuare la corrosione della voglia fino ad arrivare al dolce… e lì sì che si può condurre al domani, al dopo domani e pure al centesimo dopo domani… ma questa è il racconto di un’altra strofa… più oltre, più sfumata…) era il Molino Vigevano. Il consiglio. Pasta acida. Rolando Morandin. Il suo celeberrimo sterco come immagine poetica da dormiveglia. Mulino Quaglia e i suoi corsi. La sua solitudine alla ricerca di una temperatura e di una spazzatura dove buttare le prove e gli errori. La stima per Massari. L’entrata in Richemont. E poi… quello che resta è un innamoramento diventato legame indissolubile.
Renato e il suo lievito. In acqua, lavorato in tutte le maniere. Testato e quantificato nelle varie preparazioni.
Gli mette mano solo lui. Lo ravviva e lo rinfresca. E anche quando va via due settimane, lo mette in frigorifero e lo riprende: vivo oppure morente… ma è lì che fuori esce la poesia…
“Elegia dell’apparente morte del lievito”
… lui utilizza una metafora, io la rinnovo, un po’ per oblio un po’ per suggestione: verso la fine, il lievito ha un sussulto e si mostra in tutta la sua bellezza… se sei bravo a recuperarlo in quel momento, in quello vicino alla morte, cogliendo (come l’agave che, prima di spirare, regala, in un unico amplesso, il suo unico fiore, giallo dal gambo lungo… manifestazione estrema di una bellezza latente…) e ravvivando, si avrà l’espressione massima di sapori e fragranze.
Ma lui ama la scientificità, il bilanciamento, la precisione dei numeri. Per questo ama la pasticceria e lì ritrova il suo cantuccio, il suo futuro e la sua sua utopia.
E lo fa attraverso i lievitati classici (tra cui un panettone, mangiato dopo oltre quattro mesi dalla data di creazione, con tutti i difetti del caso – eccessiva dolcezza, uvette troppo appassite e canditura, di estrema classe come quella di Morandin, un filo nauseante -, ma molto al di qua di una più che consueta putrefazione. Renato ancora si stupisce, ne sta portando oltre qualcuno per vedere come si sviluppano. L’umidità è quasi perfetta, così come i profumi e i colori che ne fuoriescono. Conservanti? No… misteri della lievitazione… e il mio pensiero non può che andare a gennaio e a quello stesso stesso panettone…), che non abbandona nemmeno d’estate, e attraverso alcune tipologie di pasticceria secca, nel mezzo della quale spicca una gemma sotto le sembianze di un biscotto cacao (credo sia olandese, mi sembra Van Houten) e nocciole: se il lavoro per sottrazione mantiene ancora un’anima e un’autorialità, questo, ad oggi, lo si deve alla pasticceria. Renato toglie il dolce, trovando un dolce di raffinata e assuefacente bontà. E se gli rimane una ruga di suadenza, mi lascio, lo stesso, affascinare dall’esperienza…
Tutto ciò è un di più, un oltre, quell’ironia che distoglie… magari da un eccesso di complimenti, magari dalla ricerca della perfezione o magari dalla propria vanità. Probabilmente una ricerca di equilibrio all’interno della sua professione e dei suoi allori. Ah sì… perchè Renato Bosco è un pizzaiolo. E i suoi assaggi mi hanno steso.
La degustazione che ho portato a fondo, prima di essere buona, è stata un qualcosa di raramente intelligente. Il percorso verticale, quasi piramidale, non è stato un viaggio all’interno della farcitura, ma qualcosa di fisico, mirato ad un’esplorazione sensoriale, alla scoperta di lieviti e farine.
Dalla margherita scomposta, strutturata con salsa di pomodoro Petrilli e burrata, con, in accompagnamento, una fetta di pane (di farina tipo 1), sottile e friabile (fa chiaramente anche questo – lungo e persistente, magari poco profumato, quasi dolce al gusto – perchè non potrebbe essere altrimenti, le sue mani hanno l’espressionismo della panificazione... Renato èil dottor Caligari dell’arte bianca) alla classica mozzarella e pomodori. Dalla pizza vegetariana (con piselli, carciofi e asparagi) alle focacce romane (con porchetta e provola affumicata e con misticanza, formaggio acido e asparago), fino al parossismo finale della pizza a degustazione (omaggio a Simone Padoan) con crudo di parma e burrata, in cui il dolce e il freddo trovano un ensemble di rara conservazione.
Le particolarità: nella pizza sicuramente la sfogliatura. I piani sono separati e mantengono una caratterizzazione a dispetto di qualunque ingrediente. Se metti il naso, trovi il grano e non il basilico… La focaccia, a dispetto della croccantezza, è flautata e estremamente coesa con gli ingredienti. Entrambe presentano medesime caratteristiche che fanno parte della ricerca di Renato: uno strato croccante a sigillare, uno friabile e uno morbido. In modo da trovarsi in bocca sensazioni e passaggi: differenziati e mischiati ma sempre risultato di una scelta precisa… Una questione di temperature, shock termici e segreti che è meglio rimangano tali…
… almeno fino a quando non si toglierà il sorriso per mettersi addosso abitudine e quotidianità… Ma ad impossibilità acclamata, basterà il mio ricordo: un’istantanea di un lievito che non può fare altro che crescere…
PIZZADARE’ + SAPORE’
VIA PONTE, 55/A
SAN MARTINO BUON ALBERGO (VR)