Al di là dell’Adige c’è il Polesine, le sue nebbie, le sue paludi e la sua povertà. I paesi sono disabitati, le frazioni invecchiate dai calcinacci, la vista padana di un languore insopportabile. Al di qua dell’Adige, c’è la bassa padovana. Nessuna confusione. Un po’ di altezzosità nella risposta. Il paesaggio è pressoché identico, ma l’influsso dei colli Euganei, della sua storia, della sua medievalità e del suo turismo, definisce una provincia molto prima dell’identità territoriale e geografica. La pianura Padana è un lungo incubo senza senno.
Filari di mais bianco in gestazione, anziane dal dialetto lancinante (pare anche che ci siano alcuni personaggi che si rifiutino di indicare alle persone quell’eretico che ha rivoluzionato il grasso d’oca…), cascine tutt’intorno, afa micidiale, piante di giuggiole, straordinario frutto d’inizio autunno, e una strada di campagna, cinta da alberi, che porta ad una cascina senza vezzi. Qui, i contadini, da che tempo e mondo, costruivano per necessità e non per desiderio, così il lavoro iniziava e terminava in una nebbia estetica senza requie. Il bello è altrove, in luoghi ameni al di là della serietà. Qui, la famiglia Littamè ha preso in mano una tradizione agricola, cercando di innovare e di mantenere.
Michele si fa accompagnare dal fratello (che ci abbandona subito) e da un bravo comunicatore locale che sta provando a portarlo fuori, verso la contemporaneità.
Dialetto spigoloso, cadenza senza peli, Michele è un allevatore a metà strada tra il compromesso e la beatitudine. Ha trovato quel prodotto senza più un contesto e sta provando a farlo suo, rivoluzionando anni di lotte contadine in mezzo ad allevamenti intensivi, vendite di carne e sfruttamento del territorio in quanto tale. L’oca, quella salvezza dalla mucca pazza del 2001, che gli ha permesso di diversificare dagli allevamenti bovini e suini, lo ha portato a pensare, a creare, a pensare e ad accudire.
Allevamento di oche romagnole. Niente padovane (dal piumaggio grigio). Il colore fa la differenza nella vendita. Così si va sui grandi classici italiani. Allevamento semibrado. Campi di granoturco totalmente dedicati. Le oche sarchiano tutti i cereali e si costruiscono il loro spazio vitale. Divise per età, maschi e femmine insieme. Dall’acquisto e dal trasporto del pulcino (fase delicatissima, dove anche un temporale può essere fatale alla paura dei volatili…) fino alla macellazione. Le oche sono rumorose e pavide. Fracasso, luci ed estranei iniziano a farle vorticare. E il vortice è un principio di morte. Ci vogliono sensibilità e delicatezza. Così Michele ha eliminato altri intermediari che non siano l’incubatore, per gestire la Filiera in tutte le sue componenti. Mais autoprodotto, cereali, farina di erba medica, verdure, mangime (nell’ultimo mese integrato con latte e miele, esperimento riuscito nella provincia di Padova e portato avanti da Michele nella sua alimentazione), oltre i cinque mesi e decisione visiva dell’animale da macellare. Michele si piega e mi fa guardare i vari rigonfiamenti sotto la pancia. Quando sono pronti lo si vede dalla struttura corporea. La similitudine non è identità. Le differenze ci sono e l’oculocentrismo è per l’ennesima volta salvifico. Da settembre si comincia a macellare. L’acme coincide con l’estate di San Martino. Il momento della fine e della festa. “Chi no magna oca a San Martin no’l fa el beco de un quatrin”.
Onto e Confit. Sale, grasso, neve, zucchero, spezie. Esiste una storia gastronomica prima del frigorifero e prima dell’industria. Esisteva un’intelligenza pratica di applicazione dei metodi conservativi. Il confit dei francesi, con quel fascino esterofilo che si porta dietro, è l’onto dei veneti, con quella povertà da fine del mese. Si tagliavano varie parti del “maiale dei poveri”, venivano lasciate riposare crude sotto sale per qualche giorno, venivano messe in pignatte di terracotta e venivano ricoperte dal grasso. Chiaramente, il passato e l’assenza di tecnologie migliorative, con la lunga conservazione, tiravano fuori retrogusti rancidi e quasi immangiabili, tanto che gli anziani di oggi al solo sentir nominare “l’oca in onto” mettono le mani davanti alla bocca.
Oggi, però, c’è l’abbattimento (a tre-quattro gradi) e la conservazione sotto vuoto che, insieme al grasso, permettono un mantenimento perfetto. Michele conserva burnìe da oltre due anni con cui si diletta a fare prove di edibilità. Ma soprattutto sceglie e suddivide i pezzi. Li conserva separatamente, mantenendo le proprietà organolettiche delle varie parti dell’oca. La carne, sia della coscia sia del petto sia delle ali, è fantastica: uno straordinario sapore, un accenno di grasso, un colore rosato, scioglievole alla pressione e consistente in bocca. I pezzi si staccano dall’osso ma senza mollezza. Unico difetto: la salatura. Oltre modo sapida, soprattutto nelle cosce e nelle ali. Michele ha già diminuito la quantità presente, alternando Cervia a salgemma, ma l’oca ha una sapidità terrena già di suo. Lavorando sulla composizione, può veramente arrivare ad un prodotto definito. Facile (e questo può essere un limite nella vendita) perchè già pronto, ma la gastronomia ha bisogno di storie e di soluzioni. Così come massaie e lavoratori estemporanei. Dal frigorifero al piatto passano pochissimi minuti. Forse troppo pochi per un’immagine di lentezza. Il suo lavoro tende all’insieme. Lascia poco spazio all’estro culinario. Bene o male che sia. Le sue fantasie spaziano dai salumi ai ripieni, dal petto affumicato fino alla porchetta, aromatica e inconsueta.
Michele e la sua comunicazione non mostrano troppo del loro mestiere (così mi perdo le stanze di stagionatura…) e hanno bisogno di “paesane” comunioni d’intenti. Ma la schiettezza e la convinzione/realizzazione di un prodotto estremamente chiaro lasciano tutto dietro, anche l’assaggio delle giuggiole, anche la precarietà estetica, anche il dialogo dirozzato dall’incomprensione. Michele è talmente sanguigno da essere definito da nervi e muscoli. Ecco tutto…
AZIENDA AGRICOLA LUCA E MICHELE LITTAME’
VIA DOSSO 2
SANT’URBANO (PD)