Centallo. In mezzo ad una piana tra Bra e Cuneo, dove gli allevamenti di bovini piemontesi, lasciano spazio a meleti, filari di peschi in fioritura rosata, vigne e campi di granoturco. Appaiono cespugli nel verde di un’erba curata e quasi malinconica. Il paese è una schiera di anziani che tagliano delle abitazioni di retaggio contadino, frammiste ad altre palazzine dai vetri bassi, figlie dello sviluppo edilizio degli anni ’70. La pianura ha portato ad investire nell’allevamento del suino, vittima inconsapevole di aziende insaccate dietro finestre macerate da anni di conservanti ed edulcoranti, e nella costruzione di fabbriche. Le montagne, la cui eco in lontanza riflette ghiacciai perenni e roccia nuda, non hanno persuaso la vista alla placida contemplazione di se stessa, con tutto quello che avrebbe potuto comportare in termini di vocazione, espressione ed unione artigianale. Ora mi è parso un paese distaccato dalle sue radici, dove uno dei migliori norcini piemontesi si rivolge altrove per animali, carni e allevamenti e dove lo stesso ha ceduto la propria bottega (tra l’altro ad un cuoco, ex brigata dell’Antica Corona Reale da Renzo di Cervere, estremamente capace, imberbe e assolutamente strutturato…), per mantenere solo il laboratorio di trasformazione e le celle di stagionatura.
Una delle tante strade che conducono ad una delle frazioni. Una porta anonima senza insegne e un citofono. A circondare un giardino pieno di cani, fiori ed evasione, al limitare della primavera, una meravigliosa cascina restaurata, per ora, sede solo del negotium. Ogni stanza un suo ambiente, l’ordine della natura viene rispettato: dal fienile posto al primo piano, a tagliare in due tronchi l’abitazione, da qualche graticcio a corredare e dai fiori disposti, in maniera provenzale, a cingere le finestre. Le stanze di macellazione hanno la bellezza di un agriturismo senza posa, molto naturale, molto semplice. È tutto così intriso di paesaggio, da sembrare fuori luogo. E che il maiale, nella sua interezza, di allevamento, uccisione, dispersione di rantoli e macellazione, fosse un altrove, lo si è inteso dagli occhi tinti di nostalgia e da una ricostruzione di diversità, che lo presupponga come trasformazione finale.
Giuseppe e sua moglie Bruna sono persone distinte, gentili, fuori dall’immaginario dell’antico macellatore o dell’istrionico guascone di oggidì. Dietro il cancello senza insegna e senza apparenza, Beppe fa questo mestiere da quarant’anni. Il maiale è nelle sue mattine dai tempi dei mattatoi, dalla raschiatura delle setole con acqua calda, dai budelli cuciti a mano. I salami erano e sono, gli insaccati anche. Oggi, dopo la dissoluzione dei micro-macelli, dopo che le cascine hanno rotto l’antico patto con il norcino pre-natalizio e dopo che la comunicazione ha iniziato a parlare di gusto, grassi e abbinamenti, mistificando origini e scannatoi, i macellai sono diventati trasformatori e setacciatori. Ma anche, forse soprattutto, nella scelta, c’è il benessere contemporaneo.
Niente cantine, ma solo celle refrigerate, i salumi si compongono dell’esigenza e delle carni di allevatori cuneesi. Suini pesanti, appena sotto o appena oltre i due quintali, incroci di razze tra i più classici Large White e Landrace, il salnitro consentito (il colore è un vezzo e una prevenzione…), una punta di zucchero, per attivare i processi enzimatici, in stagionatura (col quale potrei non concordare se non pensassi alle facce salivanti dei fruitori medi dei ristoranti…), e budello naturale.
Nel mezzo della Provincia Granda (superata, in estensione, solo da Foggia e Bolzano…), da cui prendono il nome i suoi salumi, un norcino prova ad educare, senza sbalordire, attraverso prodotti garbati, filtrando il tutto, attraverso un reversibile claim: “come si facevano una volta”.
I salami vengono definiti dai nomi delle parti dell’intestino: il gentile, caratterizzato dal budello parte terminale dell’intestino retto, ha una breve stagionatura, è consolatorio, pratico, senza particolari divergenze al palato. Nessuna umidità né particolari aromatici. La muletta a pera (interessante, profonda, stagionata, aromatica, sale di Trapani e macis in lontananza… veramente un bel prodotto) e la coppa dall’intestino cieco, la filzetta dal crespone e i salamini dal budello torto. Giuseppe li accarezza nel miglior imbarazzo possibile, quello del permesso, della ritrosia all’invadenza e del rispetto. I salami sono i giornalisti che diventano gli animali e ritornano i ragazzini con il mixer in mano e un’aurorale carriera da scrivere ai fornelli. L’educazione è il principio della voce e così ti senti quasi in pieve, come in oratorio, con la polvere del campetto e il pallone nero cuoio.
Il suo prodotto più ricercato, perchè il livello è infimamente sceso (prescindendo dall’assolutizzazione della Mora Romagnola da parte di Zavoli e Zivieri), e uno dei migliori, nonché più curati, dall’etica e dalle mani, è il prosciutto cotto: siringatura manuale in arteria (le “multiaghi” industriali sono state messe da parte), con la salamoia perfettamente distribuita nel sistema venoso, profumato, pulito al palato e gustoso. Se solo Beppe avesse la possibilità di lavorare con bestie più insature… o con produttori più “insani”…
Il lardo è fresco, dolce, speziato, il salame cotto, tipico di queste terre e di quelle merende, insaccato in cotenna, è frugale… La bresaola, con le carni del presidio della Granda, prescindendo da aggiustamenti sulla salatura, è un grande prodotto stagionato (lontano anni luce dalle proditorie, quanto troppo fresche, carni della Valtellina)… nient’altro da aggiungere.
Giuseppe e Bruna rimangono avvezzi alle accortezze del paese e del passato, restano, per scelta, dietro il drappo del complimento e della modestia. Quando il fumo delle parole ha provato ad annebbiarli, attraverso l’indottrinamento nelle sediziose truppe legionarie, loro sono rimasti cortesi e avvezzi… da genitori, da artigiani, da persone senza insegne che ammiccano…
SALUMERIA DHO
VIA ROATA CHIUSANI 75
CENTALLO (CN)