Barolo è Barolo. È uno di quegli eponimi talmente famosi da non aver bisogno di denotazioni. Le connotazioni, quelle che rapprendono il nostro animo e lo gettano nello sconforto, nella nostalgia, nella misericordia o nella beatitudine, gratificano la nostra specie di immagini del passato uguali a quelle del presente e identiche a quelle di un futuro facile da prevedere. Barolo è Barolo. Rimane lì, tra il lascivo e il corrusco, in una patina di turisti americani, compratori indefessi e imberbi allo yuppismo spinto da Magnum, e paesani con la zazzera da contadino radical chic.
Sopra quel lembo di terra, quelle cantine, quei luoghi di degustazione e quegli acciottolati confusi, si erge la tenuta di Giuseppe Rinaldi, detto “citrico”, credo per la mineralità sia del suo vino, sia del suo carattere. E come per tutti gli uomini legati, in maniera imprescindibile ed inequivocabile, ad un tempo e ad uno spazio, la comunicazione utilizza dei mezzi, dei luoghi comuni e dei topoi di difficile interpretazione. Quindi decadono le difese e si inizia a pensare all’altro in quantro altro e in quanto difficoltà infernale di trovare una parola familiare. Il compito e il problema di quella parola diventa qualcosa di più morale e l’asprezza, l’acidità o la difficoltà trovata, son più nel personaggio creato che nella persona e nei suoi fatti. Fondamentale è avere il sentore di quale tipo di comunicazione provare. A volte, basta solo domandare, fare la figura dello stolto, non ignorare l’altro in quanto voglioso di privacy, di solitudine e di pensieri lubrici o triviali, chiedere quale sia la direzione da prendere. E se incalza, dicendoti che gli fa schifo parlare di vino, saper discernere una struttura da una sovrastruttura. Perchè, non riuscire ad interessare il prossimo, non è una condanna ma una similitudine della morte. E riconoscere l’errore è come bere un bicchiere di Barolo Rinaldi, annaspando nel buio alla ricerca delle parole adatte. Che non combaciano mai. Come alla vista di un quadro di Turner o di Tintoretto. Ma vivaddio, il vino, a differenza dell’arte, non ha ancora subito quel processo di razionalizzazione, engagè, dove il pensiero prevale sull’intuizione e dove l’emozione è un privilegio di asceti russi di fronte alla loro iconografia religiosa. Il silenzio, il tempo e le parole hanno la mistura del viso di Beppe (se così posso permettermi, con quella confidenza data dallo stesso piano semiotico…).
Come per Iginio Massari, la persona Rinaldi, ancorchè ancorata alla sua produzione, ha quella capacità pitagorica di sottrarsi alla competizione. Per rimanere lì, nuda, come tutte quelle frasi partite con “devi conoscere Beppe Rinaldi, è un filosofo, è un poeta, è un esteta”. A me è sembrato un contadino, nella più normale delle definizioni. Quella che rimane incagliata nella terra e nelle mani. Quelle che Giuseppe ama usare per creare. Non un critico, non un filosofo, non un saggista, non un architetto ma un creatore. Nessuna teleologia ma solo purissima scienza dell’esistente in quanto resistenza ad una modernità che soffoca…
… ma l’estetica, la divinità e la contemporaneità son ben solcate sui volti della moglie Annalisa (spero di non sbagliare nome…), fascino charmant e cacciatrice di invidie e adorazioni (come quella di mia moglie, invisa al brutto, e sedotta in schiocchi e immagini di una bellezza che fu e che è…) e della figlia Marta: diretta ma austera, con quella giovinezza che non può fare a meno di vivere l’interesse alla stregua di una sfida, con una puntualità di argomento rosea dei futuri preconizzati. Chapeau ad entrambe!
Ma Beppe non si può scarnificare e nemmeno dividere. Quindi ci riprovo.
Dopo un viaggio tra cinema, ribolle gialle, Sicilia, botti, tradizione e innovazione e storia dell’azienda e della cantina (straordinariamente fascinosa con le botti in rovere di Slavonia a togliere aria e fiato…), aspetto che alcuni ospiti-clienti-degustatori lascino il passo per gettare Giuseppe, nuovamente, all’interno della sua storia. Assuefatto al vino, ma probabilmente non del tutto persuaso (“Non c’è pasto senza un bicchiere…”), lo rigetto nel dissidio desiderio-bisogno, attraccandolo al discorso enologico (quello che non farebbe, parlando più volentieri di cinema…), attraverso una provocazione sul pane e la sua difficoltà di fascinazione. Legato al bisogno, ha il peso nutrimento. Il vino, legato al desiderio, ha la voluttà dell’euforia. Lui ribadisce che gli uomini, finchè erano nomadi, coltivavano campi a cereali. Un anno di stanca (erba medica o quant’altro ndr). Un altro campo. Spostamento. La coltura della vite ha reso l’uomo stanziale e ha creato la comunità e la città. Rientro di prepotenza nell’argomento e la sua dialettica mi persuade a tal punto da non interromperlo più. Ascolta sua figlia come Celine con Allen Ginsberg, ma con la grazia della soddisfazione. Poi si guarda le scarpe. Marta versa, prima Nebbiolo e poi Barolo.
Il mio naso percepisce di tutto ma la mia bocca tace. Il mio palato altrettanto ma continua a tacere. Ne è pieno internet degli aromi di tabacco, della mineralità, dei suoi cru o dei suo blend, dei tannini dell’uva e di quelli del legno, delle Brunate, delle Coste e dei Cannubi… Fatevi un giro!
Giuseppe mi concede sonetti e prefazioni. Mi chiede un parere. Forse gli interessa, forse intacca la sua solita quotidianità di giudizi avventati e domande etiliche… Scrittore icastico (anche di saggi sulla mitologica pecora delle Langhe…), padronanza di una lingua scarna, senza restringimenti ma senza smancerie. Brevità carveriana e nessuna prudenza di presunzione.
E poi c’è il suo Barolo chinato, accompagnato da un cru ecuadoregno di Marco Colzani, che raggiunge vette di onnipresenza estiva su sapori e climi invernali, quella miscellanea di sentori che prende una banana e la trasforma in strati di ghiaccio che si sciolgono sulla lingua… Le spezie si mischiano e ci si perde in un attimo di solitudine e coesione…
Giuseppe Rinaldi, detto Beppe, detto citrico, affascinerebbe e affabulerebbe anche se producesse pantofole svedesi per i bimbi dell’Ikea… ha quella coltre di già visto e di già passato, che non può fare a meno di porti dalla parte della domanda… e così sia!