Monreale è un paese di panifici, panettieri e casalinghi possidenti un Fiorino, che la domenica si trasferiscono a Palermo a vendere il pane a tutti quei cittadini che non riescono ad esimersi dal rito del pane caldo. Perché la Sicilia è un luogo dove il sesamo, la rapida lievitazione, il calore della mollica e la fragranza di un rimacinato a colpi di martello, sono sempre stati effigie di qualcosa che va molto al di là della semplice fragranza del pane. Mettersi in coda al panificio alle sette di sera continua ad essere un rito. Non c’è nemmeno bisogno di collocare fuori i cartelli, il palermitano mangia pane caldo a pranzo e pane caldo a cena. E la domenica è costretto ad accontentarsi di un’oleografia del pane monrealese o almeno di quello che si faceva una volta, quando la povertà era la più fiera oppositrice del calore dei lievitati. A Monreale, però, c’è un forno a legna, dove le abitudini non sono così tanto cambiate e dove la fatica dell’artigiano è un parossismo impossibile ai più.
Fascine di ulivo, tre infornate al giorno, canottiera e barba primitiva, pochissime parole e molto sudore… pala in legno, muratura in mattoni a vista, camera di combustione fascinosa e veramente troppo caldo… una fucina senza compromessi, un pane molto cotto, lievitato bene, con una crosta, con delle semole rimacinate di grano Simeto (forza e non troppo sapore…), con una percezione reale di cosa pretende il cliente e senza una percezione ideale di cosa dovrebbe volere il cliente. Qui non c’è futuro, ci sono presente e molto passato.
Sua moglie Rosaria prova a convogliare la comunicazione, partendo da una bottega piccola ma assolutamente funzionale, dove campeggia qualche biscotto, un ottimo sfincione, qualche pizzetta e un paio di forme del pane di Monreale che del forno a legna mantengono l’apparenza a dieci metri di distanza.
Nazareno, chiamato Remo, sigaretta in bocca e aiutante in pantaloni da mattino, si muove con e attraverso gli occhi, ha quell’eredità siciliana che del silenzio ha creato un futuro, non modella perfezioni e non argomenta, raccontando mitologia e leggende su digeribilità, bontà e atavismo, non si lambicca alla ricerca di una parola che vada al di là di un racconto tranquillamente esposto attraverso una pala, delle foglie secche e la velocità di esecuzione mano-forno. Anche di questo consta il nostro artigianato, quello del dimenticatoio, quello della povertà da crescente sotto il canovaccio umido mantenuto nei catoi sotterranei di territori come Monreale che hanno, sì, un centro ma non aspirano ad una fine e nemmeno ad un fine. La sconfinata perdita d’occhio fa a cazzotti con lo zecchino del duomo e l’impossibilità urbanistica di trovare un posto senza lasciarci giù uno specchietto o un dente. Qui, però, il pane è ancora una ritualità e i troppi Tusa che lo producono hanno fatto perdere nobiltà a quell’unico amanuense che ha deciso di continuare a copiare, perché a volte non c’è strada più lunga e faticosa. Nazareno, detto Remo, silenzio, sigaretta e forni a legna… peccato che fuori non nevichi…