Quale? Una semplice domanda che marca e pone le differenze. In pochi luoghi al mondo si riesce ad andare oltre al piatto tipico e al prodotto tipico, oltre la regione e la zona di provenienza, in pochi posti al mondo la qualità diventa la proprietà di una identità. Mi spiego, il pesce pescato a Kanazawa andrà a formare un pasto Kaiseki straordinario, dove gli anni di apprendimento, dedicati a tagli, cotture e messa nel piatto, adegueranno il piatto verso la perfezione. Il tempo e la fatica applicano una radice quadrata alla conoscenza, la scompongono, rendendola minuziosa, complessa eterogenea e articolata. L’approccio qualitativo crea l’identità di un luogo che riesce a sfuggire al concetto di prodotto tipico. A Kanazawa si mangia questo, a Bayonne si mangia il prosciutto, a Bologna il tortellino, a Palermo la cassata e a Monaco di Baviera il brezel. La facilità è già viaggio ed è appena prima dell’interesse. La facilità crea la definizione che solleva l’uomo dall’istintualità della paura. Creando ripetibilità ma anche assuefazione. Così un giorno, per caso, m’imbatto in Aimo Moroni, una storia diversa e un cuoco stellato lontano dal firmamento.
Mi dice che gli è capitato di guardare qualche programma televisivo, con qualche chef blasonato ed è rimasto interdetto. “Come si fa ad insegnare come sfilettare e cucinare un branzino?… Quale branzino?”. Ecco il punto, semplice, sincero, fuori dal sentiero perché ispido, quale branzino? La cucina italiana non è un monolite di pensiero da esportare nel mondo sotto false tovaglie e in mano a ignoranti di grido che, nei tempi morti tra una caccia alla stella e una marchetta socializzante, recitano il mantra “format” come se fosse l’unico modello sostenibile. A caratteri cubitali, CHI SE NE FREGA DELLA STANDARDIZZAZIONE DI UN PARADIGMA DA ESPORTARE A DUBAI E A HONG KONG! Non è gastronomia ma tornaconto utilitaristico! La gastronomia regola la pancia non il portafoglio. Un prodotto non ha uno standard, un prodotto non ha una regola, un prodotto non si tratta in quel modo, un prodotto ha un tempo e una maniera. Altrimenti finiamo per fare le analisi sensoriali con l’affettato dell’Unes e pensiamo che quel prosciutto sia il prosciutto.
Scegliere la materia prima attiene alla complessità dell’esistente, alla sua economia, alla sua sociologia e alla sua psicologia. Un senso (qualunque senso) non può mai prevalere sulla nostra ragione e sulla nostra affezione, la scelta è un processo non un istinto, annusare, degustare, tastare e guardare non riempiranno mai il vuoto di senso che si compone tra me e la materia prima. Il vuoto lo riempie un produttore, il suo volto, la sua storia, quegli occhi diversi con cui contrattare diventa la prima delle umiliazioni. Il mondo, e qui esce quel manicheismo che ogni tanto è meglio tener nascosto, si divide in due: chi guarda al prossimo come a un fine e chi come a un mezzo. Non esistono colori grigi o aurea mediocritas, lo sguardo non smentirà mai l’esistenza. Ogni volta che chiedo un favore a qualcuno, sto male per un’ora. Mi sento un verme nudo. E così se devo trattare con chi la trattativa non è interessato a farla. Per far cosa, per portare il suo prodotto a Milano, per creargli una comunicazione che possa farlo uscire dalla grotta, per vantare la nostra capacità retorica e salvifica nei confronti dei Kaspar Hauser gastronomici? L’identità sarà sempre un altrove e la vita un continuo di aporie, ambizioni, vittorie e sconfitte. Io e il mio cibo aspiriamo ad altro, all’identità, allo sguardo umano, ai piccoli gesti, alla normalità di un lunedì mattina, alla gentilezza come profondità dialettica e alla materia prima come dialogo e non come monologo… il resto, la parte più appetibile, la lascio agli altri…