Fornovo di Taro. Letto del fiume. Affluente del Po. Assonanza con la bassa. Per usi e costumi. Non per il territorio. Le colline appaiono nitide, vicine, a destra e a sinistra. La valle è un lungo incedere di foschia. Si arriva quasi a scomparire dietro le curve. L’orizzonte non quantifica i kilometri. I tetti granata e le facciate giallo scuolabus portano sempre verso le anse del fiume. Ampio, sabbioso, stantio. L’animo geografico delle persone è un capannello di alcuni luoghi ben definiti. È una continua domenica mattina con la messa e una domenica pomeriggio con il campionato. Le persone si salutano, vanno e vengono, non comprano ma assaggiano, usano il baratto come miglior forma di riconoscimento territoriale. Le diramazioni sono già boschi, strade che si restringono e una meta fuori dal comune. Ma rimanendo in paese, non si può fare a meno di girare in tondo e fermarsi alla Salumeria Bocchi. Il sabato mattina più confidenziale che si possa immaginare.
Una signora sessantenne al banco, i soliti clienti alla richiesta e i salumi parmensi uno dietro l’altro, nel peso, nel prezzo e nella bellezza. Qualcosa di comprato, qualcosa di assente e il resto, prodotto a la maison. Non chiedo ma osservo le richieste e la tradizione della compravendita. La crisi prescinde dai salumi. Qui, c’è ancora una religiosità laica. C’è ancora la micca sfogliata, impasto duro, poco sviluppo, mollica fitta e crosta croccante, accompagnata ai salumi e ordinata in coda alla lista-pizzino preparata dalla solerzia muliebre. Così per rovinarsi il pranzo, per surrogarlo o per innalzarlo. Nella continua richiesta di un bicchiere di vino, tre o quattro anziani del paese, mani incrociate dietro la schiena, passo cadenzato e ironia spessa, entrano ed escono da laboratorio e bottega. In una danza propiziatoria che si scontra con la mitezza dell’uomo: Anselmo Bocchi, fratello di Lucedio (a cui è intitolata l’attività…) e figlio di Nino.
È in cucina che sta preparando le erbe per la battuta di lardo. Un pestato di prezzemolo e aglio che non lascia scampo. Grasso di nero parmense, insaturo, oleico, pieno. Sotto forma di palla va in salumeria per il taglio della fetta. Le parole non sono l’abitudine di un momento e nemmeno di un retaggio. La sua famiglia era il suo lavoro. Lui si è dovuto ri-approcciare alla salumeria, una ventina di anni fa, ha sfrondato lo sfrondabile e ha mantenuto quei prodotti, giustamente famosi, che ha continuato a produrre insieme al figlio. Sono spariti le culatte e sono rimasti i culatelli. Niente prosciutti, ma salami, pancette e teste in cassetta. Pesante padano, nero parmense e qualche cinta senese. Un laboratorio che era anche un macello, prima che la follia certificativa si portasse via quel briciolo di kilometro zero che potevano ancora fare i macellai. Qualche pentola per la cicciolata e una ripida scaletta che penetra all’interno della sua straordinaria cantina di stagionatura. Quattro o cinque metri di soffitto, salumi appesi e molto legno.
Anselmo si è trovato un lavoro tra le mani e, insieme a sua cognata Carla, sta cercando di traghettarlo nella contemporaneità. Qualche soddisfazione d’oltralpe, per merito di amici viticoltori, qualche bottega e qualche ristorante prestigioso hanno portato l’estetica del culatello dal Po verso il Taro. Il resto è lavoro, anche nel dialogo, anche nelle presentazioni. Niente arroganza, niente spigolosità e niente rudezza. Anselmo non è burbero. “Parlo poco perché preferisco lasciar parlare le persone che sanno parlare”. La sofferenza non se ne va mai dal suo volto. Nemmeno nei sorrisi o nelle asserzioni. Avrebbe un mondo da raccontare ma non può. Ecco tutto.
Così ci provano i suoi prodotti, a volte tradendolo, come quei salami bucati, a volte corroborando la sua fatica e la sua bravura: salamino quattro mesi di cinta senese, budello complesso quasi povero, grana grossa del grasso che lo fa sembrare una lavorazione a punta di coltello, salnitro, bassa salatura, profumo vivido, crematura morbida, masticabilità perfetta e gusto lievemente selvatico, un filo nocciolato. Il cotechino, massima espressione dell’inverno e delle brume da fiume, è enorme, sembra sdoppiarsi, in cottura (tre ore) e in bocca: sapido, consistente, macinato grosso. Un piatto che basta a se stesso… per giorni… e giorni… e giorni… La culatta, comprata da un evidente mediocre stagionatore, è piatta e amara, un mezzo disastro. Il culatello, invece, venti mesi di stagionatura, dovrebbe sorprendermi ma mi confonde: a tratti, in bocca, ricorda una pancetta, manca di miele, e mi sottrae dal gusto con il ricordo di quell’esemplare di nero parmense appeso in cantina per il concorso che puntualmente lo vedrà sul podio. Arriva il fieno e arriva il bosco, manca di una dolcezza precisa. Pregio o difetto? Quello che rimane, a distanza di giorni, è un retrogusto speziato veramente profondo. Rimane certa la riverenza verso l’idea della testa in cassetta: grappa e limone ci sono e si sentono. Il citrico in primis. È colonna portante della cicciolata (i ciccioli sono perfetti), la povertà di un fulgore domenicale, è profonda, piena di glutammato, un brodo solido straordinario.
Anselmo, i salumi li sa fare e li sa fare senza certezza. Con la delicatezza di chi apre ogni prodotto per vederne le possibilità, i difetti e le fragranze. Senza le particolarità gustative contemporanee, con quella lezione familiare (che arriva dalle anse del Po) di preconizzare il salume nel momento della scelta della bestia. Frollature, stagionature, macinature sono legami non scritti, inscindibili da una scelta a monte. Quella sull’uomo, sull’allevatore e sull’alimentazione…
SALUMI BOCCHI
PIAZZA ITALO PIZZI 6
FORNOVO DI TARO (PR)