Spiriti selvaggi in mezzo alle montagne… Silvia Vuillermin

ayas

Champoluc. Fuori stagione, fuori da quei tornanti che portano metropolitani e riportano pelli arse al sole, neve sporca e imprese da raccontare in ufficio. L’alta val d’Ayas in tutta la sua tranquillità e indifferenza, in quella forma di codardia deposta che succede sempre ad un’ondata turistica o precede un’estate di passeggiate. Bastano gli occhi, lo sguardo alzato verso le nuvole che coprono il Monte Rosa per rendersi conto di stare bene, di dare respiro a quelle noncuranze che ci siamo portati dietro fino a lì, fino ai venticinque kilometri di salita, fino all’imborghesito bolso che porta a casa tre kili di Fontina con il sorriso lercio di chi l’ha provato a far rilucere a forza di ringiovanimenti. La val d’Ayas però è altro, va oltre gli impianti, rimane in quell’apertura che, dallo scuro umido dell’autostrada verso Courmayeur, si apre in un verde erba misto tra il trifoglio e il muschio dei fiumi che scorrono impetuosi, nascondendosi dietro un’opacità di roccia. Il pungente ti stringe la pelle dentro la camicia, ti si pianta in faccia come ad un bambino in una giornata di sole, è una panacea per qualunque ammissione di pensiero.

Silvia Vuillermin, conosciuta in valle come “La selvaggia”, è riuscita a trasformare una tradizione agricola in una scelta. La sua famiglia, giù a Brusson, d’inverno vendeva latte di vacca alla Fromagerie e d’estate portava le valdostane in alpeggio per farsi la propria Fontina: la storia di molte famiglie, di un sostentamento consorziato da lamentela ma che alla fine è sempre andato bene a tutti. Poi il matrimonio con Lorenzo, originario di Champoluc, il trasferimento e la difficoltà di mantenere lo stesso mestiere. Così la scelta. In località Pallenc c’erano un terreno e le capacità edili di suo marito di costruirci una casa e una stalla. Qualche anno di attesa, legno e pietra con vista assoluta, un po’ di pascolo, qualche campo da coltivare, prezzi dei terreni fuori controllo e la decisione della capra. Camosciate delle alpi e caseificio. Silvia, che inizialmente prova a vendere il suo latte di capra in Fromagerie con risultati altalenanti, decide di cominciare a trasformarlo, di autoprodursi tutti i fieni e di limitare all’inverno la stabulazione in stalla.

Qui la Francia è vicina ma non troppo. Le cagliate lattiche non sono nelle sue corde, lei preferisce forme più grandi, più povere, più presamiche, stagionature in cantina, muffe gialle e rosse, unghie leggermente proteolizzate e ricotte stagionate e lavorate con erbe e ginepro. Le imbeccate di Stefano Lunardi, protettore dei formaggi valdostani, fanno il resto. Le acidità puliscono, le eccedenze di forte impatto svaniscono con la masticazione, la ricotta è soave e vellutata, i sei mesi di affinamento, per una forma di un kilo e mezzo scarso, ridanno alla capra equilibri impensabili. Il fresco e le brevi stagionature sono lasciati ad un turista assente che percorre quei sentieri con domande incerte e spiegazioni da vita assolutista. Il relativo è l’anima di Silvia e della sua voglia di guardare la montagna con occhi diversi. Insieme a suo marito e ai suoi figli, che stanno crescendo con la dedizione sperata, progettano ogni giorno. Dall’orto all’agriturismo fino alla caccia. Perché quei boschi di caprioli e cervi, da selezione obbligatoria, riportano in auge un’etica molto al di là dei già restrittivi decaloghi. E così, non sparando a caso, la montagna ritorna, ogni giorno, possibilità di sopravvivenza, di vivere il selvaggio senza marinarlo, senza l’eccedenza di urbanesimo e con la voglia di guardare le piste da sci e di spalare la neve. Perché qui il cielo ghiaccia, l’ombra si porta via la poesia e il tempo delle capre lascia all’inverno la perizia del pensiero.

Superati i tre minuti iniziali dove ci si annusa per comprendere limiti ed abitudini, Silvia si apre al mondo con una cura anti-convenzionale, rara, anche ingenua, ma sicuramente riposta ancora nella fiducia, in quel modo istintivo di cercare lo sguardo e di trovare il riguardo, facendo sentire l’altro come una possibilità, un giudizio meditato. Il resto è agricoltura, sono quelle arnie che danno un millefiori di montagna, da cui è difficile tornare indietro, sono quegli azzardi montani da segale e da grano saraceno. Perché luoghi come questi sono recupero prima di tutto. E se selvatico deve essere, che selvatico sia, senza compromessi…

AZIENDA AGRICOLA SILVIA VUILLERMIN

PALLENC (CHAMPOLUC)

AYAS (AO)

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