Tradizione, show e macelleria. Sergio Motta

Inzago. Macelleria Motta.
“Un macellaio vero. Vero perche’ faccio il macellaio dalla mattina in cui sono nato, che era il lontano 14/09/1968. Sabato mattina ore 10.00. Alle 9.30 mia mamma era ancora al banco della macelleria e mio padre non voleva che andasse in ospedale, sulla falsa riga di “non riesci ad andare domani?””. Questo è ciò che ha preceduto la mia visita.
Sergio mi aveva già comprato. Poche righe erano riuscite laddove il mio pregiudizio e la mia arroganza avevano provato a mettere dei freni.
Quando mi presento, di sabato mattina, la bottega è piena.
Quello che mi colpisce, di primo acchito, è la lentezza con cui, sia lui, sia i suoi aiutanti (tra cui lo chef del suo ristorante, sempre presente il sabato, per dare una mano e per imparare quello che troppi cuochi, nell’era dei masterchef, danno per scontato…), tagliano la carne, la legano, la suggeriscono, interagendo con il cliente. E quando le richieste sembrano essere frutto di ricerca, interviene lo stesso Sergio (anche a costo di trascurare per qualche minuto il “suo” cliente), con la sua cultura, la sua conoscenza e i suoi consigli.
Io m’intrattengo un po’ con sua moglie. Donna devota, con pochi peli sulla lingua e con un acuto senso per il bello, cioè quel contesto che ruota tutt’intorno a suo marito.
Tra la circostanza e la verità, estrapolo la realtà di Sergio: “A volte non riesce nemmeno a dormire, da quanta voglia ha di rimettersi a lavorare… Più lavora, più è felice”.
Sono le 13.30 quando la bottega si svuota e riappare la calma. Sergio si avvicina e inizia a raccontare. Le sue due anime, quella del macellaio e quella del fine comunicatore, si alternano e si nascondono, per poi riapparire, corroborate, all’apice delle sue dita, indicanti un enorme coscia posteriore su un carrello e una lombata col suo filetto nell’altra. “Questo è il mio show. La prima cosa che il cliente vede”. Ed effettivamente la vendita inizia lì. Quelle gradazioni del rosso, tra il borgogna e il Persia, colpiscono dapprima la vista, che inizia a fantasticare, in seconda battuta l’olfatto, che è già occluso dagli afrori di brace e infine il gusto, che inizia un’accelerata salivazione.
Mi controllo. Ma lui mi dice “L’hai assaggiato caldo?”. “No”. “Tieni!”.

La fine. Prosciutto cotto, tagliato al coltello. Strato di grasso, spesso almeno tre centimetri, che protegge e mantiene tutta l’umidità di un prodotto, probabilmente dimenticato. Bistrattato dai più, si insinua nel gusto come qualcosa di soffice e di delicato. Filamentoso, rosa caldo, nel suo intigolo gelatinoso, rilascia la potenza di un macellaio che ha reso spettacolare un artigianato pieno di foglie marce e imbonitori.

E se il buongiorno si vede dal mattino, questo prosciutto è il biglietto da visita di un artista del coltello, di un signore, dall’ego smisurato (vivaddio!) e dall’indiscutibile capacità di suggestione e di magia. Tocca, taglia, affetta, sorride e incanta. Questo prosciutto è il piffero della sua “malia”. Non posso che ammettere di essere entrato nella rete.
“Quando mi verrà a trovare, si renderà conto cosa c’è dietro a tre metri di banco di un macellaio vero”.
Ed effettivamente me ne sono accorto. Un macello in piena regola.
Funziona il lunedì, a volte, per i suini, il martedì. La domenica sera Sergio si mette in strada per il Piemonte, dorme (se riesce), due o tre ore, forse nel furgone, prende le bestie e riparte per Inzago.
Mattatoio. Il suo aiutante Ricky mi fa vedere tutte le fasi della macellazione, fino a riportarmi tra le braccia e le parole di Sergio. Apre le varie stanze di frollatura, mi indica le bestie appese, poi trova un passaggio tra le fitte maglie di queste mummie che iniziano a ricoprirsi di muffa e straordinari sentori. Mi fa cenno con la testa verso un pezzo di carne, legata e ricoperta con un telo. La carne dell’evento, quella che cucinerà con Gualtiero Marchesi (fruitore e veicolo di soddisfazioni, rispetto e stima infinita), nove mesi di frollatura. Suo padre la sta conservando gelosamente.
Alle due e mezza prendiamo la decisione di andare verso il suo ristorante, quello che ha aperto, per necessità di regalare, alla sua carne, visibilità, stampi di rossetto sul bicchiere, ricorrenze, abiti da sera, mostrazione di potere, bottiglie di champagne, romanticismo da separè, rumore di ceppi di camino che iniziano a sfrigolare lingue e sapidità. Ecco la bellezza e la cura. Ecco l’esistente in tutta la sua forza. Sergio ha la vanità delle donne affascinanti, quel “certononsoche” anche di fronte all’errore o alla normalità, quello che non può concedersi riposo se non nella forma della profondità silenziosa.

Fa uscire dalla cucina una battuta di fassone in verticale. Nella sua naturalità (nella ricerca della temperatura all’interno del ristorante, cresce sui toni della scioglievolezza fino a sdilinquirmi, lasciandomi con poche cose da chiedere…), accompagnata a sale di Maldon e olio Pianogrillo (questo tipo di sale stordisce il palato, affinandolo ed educandolo ad una differente direzione sulla sapidità. Una decostruzione all’interno di un genere. Un po’ Peckinpah, un po’ Durenmatt. Scava in profondità), lavorata a tartare, con uovo e salsa verde (lo chef, quello stesso che legava ariste in macelleria, nell’educazione sentimentale e rispettosa verso la materia prima, ha trovato l’accordo, quello raro, quella musicalità che il palato necessita nel suo essere stato sbalzato fuori strada… ). 

Poi ritorniamo in macelleria. “Sogni da realizzare??… mi piacerebbe avere dello spazio dove creare un allevamento di maiali… e magari uno di cani… in modo che possano mangiarsi gli avanzi del ristorante ”. Tutti gli altri non hanno nemmeno avuto il tempo di formarsi, segregati nella razionalità di un macellaio che aveva fin troppo chiaro qual era la strada più complessa per entrare nel mondo dello spettacolo. Ieratico, ogni giorno ripete il suo show, riuscendoci attraverso la vista e la maestria. La carne è già cotta nell’immaginazione e nella memoria…

– bistecca di posteriore: bue frollato circa tre mesi (il suo marchio di fabbrica sono le lunghe frollature che sono anche il punto di approdo di una certa rapida e caricaturale critica da parte di alcuni… anche colleghi…), col grasso di marezzatura che ha avuto il tempo di distribuirsi nello spessore delle masse muscolari, rendendo la carne tenera e con un sapore fuori da qualunque regola e pensiero. Cucinata sopra uno strato di sale grosso, caramellizza anche l’anima…

  – petto di pollo: non lo vedo convinto. Cucinato a cotoletta, con una panatura molto, troppo asciutta. La dignità da lui paventata, è diventata un incredibile argomento a favore della bontà della carne.

  – bistecca di fesa: poche parole, anzi tre: dissolvenza in nero (quello della gola)…

  – salumi: bresaole di diversi tagli (passano dalla sapidità all’eccessiva salatura… un paio rimangono, comunque, memorabili…), salame (forse il suo salume più sottotono, ma la bontà e la materia prima non si discutono… chiaramente l’attenzione è indirizzata altrove) e prosciutto crudo (molto stagionato, ha una salatura  controllata che si dissolve, rilasciando alla bocca pulizia e delizia).

Ecco Sergio Motta, lo yuppie dei macellai, un sorriso da fotografare, un uomo la cui bellezza è accresciuta dall’avere un coltello in mano. Ipnotico, lacerante e magistrale…

Ps il ristorante abbastanza sotto tono… soprattutto nei piatti “cucinati”…

MACELLERIA MOTTA
VIA MATTEOTTI, 8
INZAGO (MI)

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