Gambolò. Anzi la frazione di Belcreda. Appena agganciata alla Lomellina. In un territorio dove ti aspetteresti risaie sconfinate perdute tra miraggi e monotia, trovi un paesaggio pieno di risaie sconfinate e monotonia. Eppure, il classicismo lomellino, dove i terreni sono approntati e storicamente appiattiti per la coltura del riso, lascia spazio a terreni perfetti per la coltivazione dei legumi. Qui, i campi s’intervallano seguendo le voluttà dei proprietari: alcuni hanno le camere già allagate e seminate, altre attendono i cambiamenti climatici e la brevità di una coltura come quella del riso che abbisogna di pochi mesi per la sua rendita. Nascosta tra le frazioni e le facce, tanto accigliate quanto indifese, degli astanti di provincia, la Cascina Casalina non dà mostra di sé e non interrompe la nevrastenia di una strada dritta e senza cielo.
Le visite precedenti mi hanno rilasciato degli straordinari risotti autoprodotti, una madre con le cadenze olmiane delle contadine della bassa, una struttura eclettica e una prolungata assenza. Quella di Giuseppe Oglio, un uomo impegnato molto oltre la mia pazienza… che, fiaccata, al momento di cedere, viene abbondantemente ricompensata…
Giuseppe arriva con un enigmatico amico. Accento meridionaleggiante, capello artistoide e occhiale psichedelico. Organizzatore di eventi-concerti, aiuto-agricoltore, milanese trapiantato nei ricordi delle serate degli anni ’80, tra un battito afro di Fela Kuti e un ricordo del Capolinea e degli estinti locali meneghini. Da bere, da dormire e da mangiare. Epitome in tre direzioni.
Giuseppe è dinoccolato, disorientato, un fiume in piena di parentesi alla Philip Roth, distratto e concreto. È un flusso anti-coscienziale che parte dalle mani e dai gesti. Una prossemica della comunicazione fatta di retaggi, di nomi concordanti e di nomi infestanti su cui, a volte, sono costretto ad assentire con la testa per paura della mareggiata. Un passato dicotomico tra due educazioni: quella del padre e quella dello zio. La prima improntata alla rettitudine, alla coscienza morale e al costume, la seconda, manco fosse un David Bowie californiano con i Kraftwerk di Autobahn nell’autoradio, marchiata dall’illiceità e dal tabù.
Così è venuto fuori un agricoltore atipico, almeno per la Lomellina, dove le facce scure, il mero profitto, la storicità di un prodotto che non ha più nulla da pretendere hanno scavato i fossi e delimitato nebbie e condizioni. Giuseppe, chiaramente, a produrre lo sviluppo genetico del riso non c’è stato, e così ha dovuto andare lontano a recuperare consensi, per poter tornare e lavorare la sua terra. Un aufhebung agreste.
Tre facoltà scientifiche, tre anni ognuna, nessuna laurea. Un po’ di chimica, un po’ di agronomia e un po’ di biologia. Poi, improvvisamente, dall’altro lato. Così lo stupore dei cattedratici ritrovatisi a dividere lo stesso consesso: “Ma lei era un mio alunno?”… “Con chi si è laureato?”. Ecco il dottore, solo in calce, Giuseppe Oglio.
Adesso ha anche abbandonato la velleità dell’agricoltura biologica certificata. Lui è stato uno dei primi a parlare di permacultura, agricoltura naturale e agricoltura selvatica. Senza velleità propagandistiche e senza nemmeno uno zuccotto ebraico in testa a dimostrare l’apriorismo della natura. Giuseppe, passato attraverso conoscenze politiche, nobiliari, la creazione delle Fattorie didattiche, il Cnr, gli omaggi giapponesi, la contro-cultura, le scottanti verità poste nelle mani di un Santoro reticente, i programmi televisivi, il Ministero dell’agricoltura, i rapporti commerciali, i campi ungheresi e rumeni, l’apartheid, Mussolini, la perestrojka e il rodeo texano, è arrivato a sedersi su una sedia di legno e paglia, discettando della paura del mondo, dopo aver curato il dna delle sue piante, estirpando la debolezza di anni di trattamenti e di manipolazioni.
Un riso Carnaroli, nato da un incrocio tra il Vialone e il Lencino (la vera origine di tutto… ormai quasi completamente scomparso…), può raggiungere quasi i due metri di altezza. Tutti se ne riempiono la bocca. Quello di Giuseppe raggiunge il metro e venti. Per assenza di trattamenti e di concimazioni. La crescita non è direttamente proporzionale al benessere e nemmeno alla memoria della pianta.
Pensiero lampo: un campo di carote è il Campo per le carote (ad ogni terreno la sua coltura); semina a spaglio; il diserbante per il mais è il mais stesso, così, a parità di condizioni meteorologiche, per tutte le infestanti; il chicco originario del riso conteneva vitamina C (ecco un’interessante analisi con cui procedere…); i cereali, se coltivati armonizzando con piante erbacee, prendono e rilasciano gli aromi (vedi un suo straordinario orzo perlato con retrogusti mielati di camomilla…); per inselvatichire una coltura ci vuole tempo, assenza di aratri, tempo e integrazione; il patrimonio genetico dei semi antichi è quello che rende gli stessi più forti e più adatti. Tutto questo lavoro si può riassumere in agricoltura selvatica. Con riseptto verso la terra ma senza ideologia.
La sua trasmissione sulla risicoltura, arrivata ovunque, è diventata una comunicazione rapsodica, molto frammentaria. Procede per rimandi, manco fosse Eraclito al Tempio di Artemide, affascina, ammaliando, e tratta tutti alla stessa maniera. Ha un registro comune, senza supponenza da classe sociale e senza mettere dei filtri. Solo l’arrivo della sorella, farmacista condotta e promulgatrice culturale del paese, verbo cittadino e ironia tagliente, genera vieppiù lo straniamento: mio e di Giuseppe. Io scambio Belcreda per Berlino, lui mette da parte un po’ l’ego e ascolta da fratello minore. Lo sguardo da protetto è un passaggio intimo molto evocativo…
I prodotti non hanno discussione:
quattro risi: selvatico, originario-integrale, Rosa Marchetti e Carnaroli. Quest’ultimo, dalla lunga cottura e dal poco amido rilasciato (a differenza dei più blasonati e cari Riserva San Massimo e Acquerello), è complesso da lavorare. Non accetta scorciatoie. È fuori categoria. Per eccesso di rialzo e per eccesso di ribasso.
Un salame non vendibile. Senza nulla, poco stagionato, da suini allevati alla sua maniera. Eccellente parte magra e straordinario grasso: dolce, quasi fiorito.
Un paio di vini frizzanti, da luna calante e da foglia di pesco nelle botti.
Cereali e legumi intercambiabili e ineccepibili. Dal miglio all’orzo, dal grano frassineto fino ad un grano turgido, che è un saragolla, levato dalla patina-panacea del kamut d’oggidì. Meno appuntito, più piccolo, poco lucente e meno duro. Una straordinaria idea di pastificazione.
Giuseppe è un uomo da confidenze, da tavoli di legno e da camicie rockabilly, lanciate sulla psichedelia dei Gun Club in qualche bettola di Nashville. È un uomo di inizio anni ’80, di un passato sorridente, di feste paesane, luna park, feste country, piazzetta del paese e Garelli. Con il vezzo della cultura e dell’impertinenza. Qualità ricercate dalla casta ma senza prezzo e senza salotti…
CASCINA CASALINA
BELCREDA DI GAMBOLO’ (PV)
[…] Giuseppe Oglio è dinoccolato, disorientato, un fiume in piena di parentesi alla Philip Roth, distratto e concreto. È un flusso anti-coscienziale che parte dalle mani e dai gesti. Una prossemica della comunicazione fatta di retaggi, di nomi concordanti e di nomi infestanti su cui, a volte, sono costretto ad assentire con la testa per paura della mareggiata. Un passato dicotomico tra due educazioni: quella del padre e quella dello zio. La prima improntata alla rettitudine, alla coscienza morale e al costume, la seconda, manco fosse un David Bowie californiano con i Kraftwerk di Autobahn nell’autoradio, marchiata dall’illiceità e dal tabù. […] […]
Davvero interessante! Sono un tecnologo della panificazione e dei prodotti da forno, in linea con la filosofia espressa in questa presentazione.
Spero ci si possa incontrare.