Vannulo, un nome che non dice niente… Antonio Palmieri

Capaccio. In mezzo a quella provincia di Salerno che nasconde, ma senza smancerie. Se si esce dall’autostrada a Battipaglia, ci si arrampica per un climax dantesco, che prevede il passaggio dall’inferno del traffico, al purgatorio della miriade di caseifici trasformatori, che danno l’idea di volersi sovrapporre l’uno all’altro, come se la professione del casaro, così identificativa di questa fetta di mondo, non fosse una vittoria ma una rivincita (non si cerca di crescere insieme, per il bene di un territorio, ma si tenta di crescere sulle spalle, per una scalata totemica al successo o alla pagnotta quotidiana…), fino al paradiso di questa piccola borgata, in direzione Agropoli, dove i caseifici di cui sopra si tramutano in tenute e pascoli. Per pochi kilometri, il tempo di un’apparizione. Mi verrebbe da dire dell’Apparizione. Anche perchè se il paradiso non garantisse la mia infermità intelligibile, preferirei mi portassero qui, con le labbra madide di latte e la faccia angelica di quella che Scheler definì come volontà di morte…
Qui si erge la Tenuta Vannulo, memoria e testimonianza di un meridione che non è, se non qui… Altrove non può essere, perchè l’eccezione e il rifiuto male si attagliano alla figura contemporanea dell’allevatore. Sempre nella mischia, tra banche e clientela inespressiva.
Qui, nello stesso luogo dove si erge la Tenuta, dove le bufale fanno le impronte sul “Paestum’s Boulevard” e dove la mozzarella ha cambiato sapore, determinato gusti e creato miti, lavora, vive, passeggia e si pone in un rapporto dialettico con il mondo, Antonio Palmieri, un hacendado gentile.
Presidente per tutti, fortunatamente io riesco ad aggirare l’ostacolo. Innovatore, visionario, distante, usurpatore di privilegi, gabelliere d’arroganza, quasi un oracolo post moderno. Le copie sono dietro l’angolo, più o meno conformi. Amanuensi del pensiero trito si sono riposati sull’idolo, adempiendo al compito della deferenza e rubando l’intellezione da regalare al turista di passaggio: allevamento biologico, nascita della yogurteria/gelateria, creazione di un caseificio ultra-moderno, quasi psicotropo, con materassini, docce e spazzole per massaggi, dove le bufale (attraverso alcuni macchinari che gli svedesi hanno creato appositamente per le vacche… quindi con le difficoltà di adattamento del caso…) decidono loro quando è arrivato il tempo della mungitura (togliendo al latte lo stress e regalandogli il desiderio…), dove i vitelli sono gradualmente separati per stalla e finanche dove l’apertura al cliente si è trasformata in un’oasi di relax, rosa antico ed erba all’inglese. In tutto questo, e in molto altro, Antonio Palmieri è arrivato primo. Ma le tracce hanno un’origine, i falsari un’ottima trascrizione e i sosia hanno trovato parrucchini, panama e baffi finti…
… questo, e lo dico senza alterigia, sono le briciole del racconto, l’angolo della mimesi. Quello che Antonio continua a non dare per scontato è la meta. Non avendola, non può fare altro che terrorizzare. Precipizio e burrone. Per gli altri è un continuo inferno. Lo trovano solo come beffa. Quello che rimane sono contorni di futuro…
Se Antonio è un preconizzatore, lo è nella misura. Togliere il troppo, quando hai la possibilità di far aspettare sudati bancari, riversi su sogni infranti e cravatte capestro, anche ore, o quando alle undici di mattina la tua rivendita non ha più mozzarella da circa diecimila giorni, o quando puoi permetterti di trattare Emilio Fede da Emilio Fede, o lasciare Richard Gere a bocca asciutta, è il passo più complesso. Recuperare normalità, tra templi e fedeli salivanti, è intimamente perverso e, nello stesso tempo, l’unico viatico verso la verità.
Antonio Palmieri è un iconoclasta, dissacratore di miti. Il tutto attraverso le parentesi.
Ogni tanto capita di trovarsi tra le righe. Con quella sospensione dell’incredulità così cara al romanticismo inglese. Auspicando sempre che la trama non ci abbandoni.
Qui mi sono trovato nel bel mezzo di un romanzo di Philip Roth. Con quelle parentesi che si aprono, allargandosi, diventando sguardi, toccando profondità di pensiero e banalità enciclopediche, e chiudendosi sempre. All’interno, il racconto che Antonio gestisce con cognizione di comunicazione e fascino. Ritornando sempre al punto di partenza. Ricollegandosi senza perdersi. Facendo sognare e conducendo le danze in una delle stanze di Palazzo Ponteleone, in quella mimesi così naturale con il Principe di Salina. E così le donne sdilinquiscono e fantasticano, in quell’abbandono di gelosia che solo la Cura può regalare.
Antonio fa il sornione, con quell’ironia autrice di un’Io elegante e sconfinato. Nelle sue parole non c’è mai un aggravio della situazione ma sempre un rilancio, ancorchè, in un’unica occasione, la sua curiosità (ben controllata) è fuoriuscita senza controlli. Il giudizio degli altri (non il gusto…) lo interessa e lo punge a vaghezza, quasi spaventandolo. Ogni relazione ha un prezzo… che si esprime anche nella decadenza del valore… per questo Antonio tende al buon viso, all’etichetta e alla cortesia. Le persone sono una risorsa, così come i nomi e le professioni. Il sarcasmo è qualcosa di intimo che rilascia nella fiducia, il resto è garbato disinteresse rosa adulazione.
Il suo orecchio, che a tratti sembra scarnificato, vagando per la stanza e per il suo feticcio, ritorna sempre sulla domanda. Magari un quarto d’ora dopo, ma non ha mai la protervia della fatuità.
Solo alla fine arrivano i suoi prodotti, con quell’aura di sacralità espansasi in tutto il mondo e in tutto il web. Invidie malcelate, approdi a mozzarelle migliori, culto della personalità nordcoreana e altri ammenicoli vari. Il Papa (attraverso i suoi emissari), De Laurentiis in elicottero, Pinchiorri, Gad Lerner ecc… che muovono il loro posteriore per fare la fila insieme agli altri. Le facce sono tutte uguali, con rarissime eccezioni. Ma per il bene della mozzarella, l’assaggio è meglio completarlo in giornata…

– Più compatta delle altre, risultato di una lavorazione sulla mozzatura certosina e un po’ vanitosa. Poco sfogliata e senza acidità corrosiva. Il sapore è uno e immenso: quel latte, alimentato biologicamente, che esplode al contatto coi denti. Mai ciccoso ma sempre persuasivo. Senza odori terzi o retrogusti di nocciola clorofillizzata. Poco betacarotene. Luminosità bianca e potenza infinita…

… ma me lo aspetto… Lo stupore sta altrove. Nell’assaggio della ricotta: avevo un sapore, una consistenza e una fragranza. Mi sono trovato in mano un cumolo di cenere e una nuova estetica del gusto. Indefinibile, quasi morale…

Poi ci sono gli yogurt (corretta acidità, misture azzeccate e fermentazione perfetta dal sapore dolce), i budini (con il cioccolato di Paul De Bondt, non toccano vette assolute ma sono piacevoli), il gelato (che non è gelato ma una sorta di cremolata… non mi lascia persuaso fino in fondo… ci sarebbe da lavorare… ma cui prodest?), il cannolo alla ricotta (al forno e non fritto… eccezionale… rarissimo equilibrio…) ma potrebbero anche non esserci… potrebbe addirittura sparire tutto.

La mia concentrazione è stata rapita e credo che il riscatto non sia trovabile sulla strada del gusto. Questo è il mondo di Antonio Palmieri. Ci entri solo se lo decide lui, ma poi i lustrini e l’immagine preconfezionata diventano ricordo indelebile di un giorno, di un’ora e di un volto, che avranno sempre un posto d’elezione nella scalata verso lo stupore… e mi sono trattenuto…

TENUTA VANNULO
VIA GALILEO GALILEI, 10
CAPACCIO (SA)

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