Acqua, farina, lievito… e aria. Eugenio Pol

Sono le sei di sera di una domenica di luglio. Alta Valsesia. Fobello. Comune famoso per due produzioni alimentari: i formaggi della Giuncà (ingranditasi a dismisura e ormai rimasta col solo vezzo della trasformazione…) e il pane di Eugenio Pol. Arrivo ad una casa con una scritta in legno che riporta l’ormai famoso nome di “Vulaiga” (che in dialetto locale vuol dire qualcosa… ma che non mi permetto di ritradurre). Urlo “Buonasera”. Si affaccia la moglie. Scende. Mi dice che il marito sta lavorando. La domenica è il giorno di produzione. Dalle due e mezza… di mattina. Non sa se è stanco per ricevere gente. Ne riceve poca. Chiede. Una voce risponde “Cinque minuti”. Ed è il tempo reale da me aspettato. Esce lui. Intimorito lo saluto. Ci invita a sederci. Sempre intimorito inizio a fargli delle domande. Mi risponde con voce oracolare. Lontana. Mia moglie gli detta i tempi in cui deve tornare dentro per controllare la cottura del pane. Questa cosa gli dà fiducia. Si rilassa e ci apre il suo mondo.

Ci permette di entrare nel suo forno e di aiutarlo a sfornare il pane. Da lì in poi la mia ragione, quella parte legata strettamente alla definizione, che riporta tutto sul piano del già conosciuto e del pregiudicato, che imbriglia la paura creando limiti nel tutto magmatico, trova riposo. Vicino all’idolatria, vengo prontamente rigettato dal Maestro. “Pensavo fosse una star”. “Vaffanculo”. Iniziamo a parlare di gastronomia. Di tutto.

Le sue critiche sono meno velate delle mie. I Miti cadono a decine. Mi racconta storie. Disserta di forni elettrici (migliori per il controllo delle temperature) e di forni a legna.

Poi mi spiega le motivazioni che lo hanno spinto fin lì. Ha trovato l’acqua. Ha trovato il pane. La farina sembra passare in secondo piano rispetto alla sua scoperta primitiva. 
E’ necessaria ma è come se lo fosse meno. Mi mostra gli enormi pacchi di farina del Mulino Sobrino. Mi parla di Renzo. Di come si mettano a scrutare i campi, a guardarli, quieti, in una coltre di fascino utilitaristico. Del recupero di vecchi grani. Della Toscana e della Sicilia. Poi accenna al lievito (nessuna determinazione meccanicistica, poche regole, rispetto estremo per la stagionalità e per l’umidità dei luoghi e dell’aria. Ogni fermentazione e ogni tipo di grano determinano i propri sapori. Sempre diversi). Continua a ripetere acqua. E poi aria. Una non dev’essere clorata, l’altra deve essere priva di polveri sottili. Mi racconta delle erbe spontanee e dei vari tipi di pane che produce. 
Poi ne sforna uno con uvette di Smirne e noci di Grenoble. Le mie ultime certezze decadono. Lo provo ad assaggiare con un pezzo di formaggio (un maccagno di Livio Garbaccio appena preso). Niente. Mi rovina il sapore del pane. Qui torno a definire. ”Rivoluzione Copernicana”. Sono stato fiaccato da queste emozioni mai provate.

Eugenio Pol è una persona con uno spessore umano poco consolatorio. Non ti dà certezze. I suoi occhi, a metà strada tra la poesia e l’inquietudine, si stagliano sulla profondità dell’esistenza. Ti guardano. Il suo vezzo oracolare non è una maniera ma una necessità. Il suo rapporto con il bisogno umano è qualcosa di vissuto, di primigenio, di necessario. L’origine del pane è l’origine dell’uomo. La sua solitudine. La sua tradizione. Il suo tradimento. Perciò racconta il giusto. Non ha allievi. Non diffonde il verbo (mi è parso non gliene fregasse veramente nulla della dialettica gastronomica…). Non è l’emblema di nessuna resistenza umana. Non può che fare quello che fa…. E’ lì. Ecco tutto…
Il pane che produce è un pane straordinario. Non c’è bisogno di assaggiarlo per saperlo. E’ predeterminato dalla conoscenza di Eugenio. E’ ovvio che sia così, non può essere che nella direzione che il suo sguardo traccia. E non è una questione di fiducia, di rapporto umano, di bellezza della persona. E’ una questione di cultura. Nella sua forma più profonda e più rara. Quella che non affascina, ma trasforma… le cose e le persone…

VULAIGA
VIA RIZZETTI, 22
FOBELLO (VC)

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