L’insostenibile declino delle Pasticcerie Milanesi – Seconda Parte

-Cucchi: orari improbabili, ma molto confortevoli. Mignon di discreta fattura, soprattutto frolle e creme. Lievitati immangiabili. Vetrine inguardabili. Sfilza di prodotti in vendita da Bazar d’Istanbul. Posizione strategica. Un filo scortesi…

-Elli: graziosa, piccolina, ben posizionata, concezione di pasticceria gentile. Ecco tutto… bignè alla crema semi-disastrosi, poco aerei ancor meno friabili…

-Namura: l’idea sarebbe anche interessante… puntare sul biologico… Il resto è pura propaganda… la bontà è ridotta ad ingredienti standardizzati (fatta eccezione per Sobrino e per dei buoni croissant) e a leggendarie “Madri” del lievito… Un’altro di quei posti da “come se fosse fatto in casa”… ma allora perchè uscire?

-Pavè Milano: eccoci… quella che pare essere la pietra filosofale della pasticceria milanese. L’enfant prodige Giovanni Giberti, formazione tra Gary Rulli e Andrea Besuschio, delizia i palati degli hipster milanesi. Luogo insopportabile, pura finzione di una tradizione americana che con la nostra storia non c’entra nulla… pane abbastanza buono, croissant immangiabili, compresa la famosa-famigerata 160. Ma non è il luogo per aprire discussioni su legittimità di confetture, diciture e bontà. Il salato è salato. Molto bakery… molto spocchiosa e un filo pulciosa… ma piace… quindi sono io che ho capito poco… Materie prime, da Quaglia a Valrhona, discrete… lancia spezzata…

-Viscontea: una pasticceria del passato in una via mitica, quella della scuola di Alemagna… una di quelle confetterie dai modi formali ma gentili… Michele Mastrorilli è quantomeno capace ancorchè la clientela puzzi di naftalina… un filo barocca, ma tradizionalmente autentica…

-Peck: non l’avrei messo se non fosse per la precisione dell’offerta. Sempre uguale a se stessa, carissima, morta e sepolta nelle pellicce della bourgeoisie cittadina, ma affidabile al gusto.

… Note dolenti…

-Supino: un posto agghiacciante che sembra più una barberia che una dolceria, dei proprietari alienati dalle richieste di un unico dolce e quindi, nell’irriconoscenza di chi si fa kilometri per un guantiera di paste, estremamente maleducati e respingenti, e quest’unico dolce: il cannoncino. Straordinari i commenti della gente delibante, laconico il mio: mah…

-Da Giacomo: ogni tanto bastano due sorrisi, non è che ci voglia molto… e un giudizio cambia. E invece… Molto “imprenditoriale” con quella blasonata pasta sfoglia insopportabilmente aromatica…

-Sissi: un posto da e per psicopatici. Alla moda… potrebbe essere la definizione di tutto… Famoso per le colazioni… la gente si accalca, manco capisse il reale motivo del suo accalcarsi… D’altronde, l’italiano appena vede una fila si mette in coda… e io con lui… la qualità della sfoglia è normale, poco burrosa, senza struttura, senza friabilità… accidentale…

-Bastianello: classica e ingessata. Il gusto è rimasto agli anni ’80, così come la pesantezza della proposta. Ancora i cestini ripieni di frutta e crema pasticcera… Basta!

… Note morenti…

Taveggia, Sant Ambroeus, Clivati, San Carlo, Gattullo, Cova, Cremeria Buonarroti, Marchesi: sofisticati e sofisticatori. Emblema di vecchie generazioni sepolte nei debiti o di nuove gestioni improvvisate (tipo la fuga di notizie del matrimonio Taveggia-Biasetto). Panettoni acquistati da monodiglicerizzati artigiani dal baffo finto (vedi Albertengo o Loison), laboratori spompati in creme al burro o torte alla panna, come se ogni giorno fosse il venticinquesimo anniversario di una coppia sposata nel 1960. Confetterie diventate confezionatrici. Prodotti di qualità dubbia, semi-lavorati improvvisati e dolci pesanti ma non barocchi. E tanto, troppo accento a rimarcare l’altezzosa differenza.

La pasticceria milanese era un tocco di classe, quell’azzimata domenica mattina tra la portineria e il pranzo, quel panettone, quella meringata, quella millefoglie, quella meneghina, quell’amor polenta, quei cabaret di pasticcini che, nell’educazione al passo coi tempi, trovavano l’emblema della multiculturalità e dell’europeismo. Se Parigi era vicina, ora è un’impressione notturna, lontana anni luce. Il centro di Milano è morto con le sue pasticcerie. Vittima dei prezzi, vittima della globalizzazione e della continua mimesi allo sviluppo. Milano non è più un luogo per artigiani. E qui Ermanno Olmi ha pienamente ragione. Però, c’è un però. L’archeologia industriale che solcava la differenza tra la borghesia e il proletariato, così ben definita nelle pasticcerie meneghine, è il presente di una città nata e cresciuta per lavorare. Se ci riprendessimo un po’ della nostra borgata e rilasciassimo quella puzza stantia di metropoli artefatta, magari ritroveremmo lo spirito connaturato nel rapporto tra artigianato e tessuto cittadino. Quella voglia di confrontarsi, di scambiarsi segreti (o know how come ci hanno imposto i metropolitani d’oggidì…) e di non lasciarsi sopraffare, a tutti i costi, da abitudini e mode. I tempi del rabarbaro Zucca o dell’amaro Ramazzotti sono morti, fortunatamente, e non li rimpiango. Quello che rimpiango, pur non avendolo vissuto, è quella ricerca della vetrina, quella fragranza di zucchero caramellato in quartieri silenti e poveri di lampioni, quell’anima commerciale che aveva ancora un fine: quello verso il bello…

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